
Arcadia a Roma Anno Domini 1690: accademia e vizi di forma
Soli cantare periti
Arcades
Virgilio, Eclogae, X
Un’impresa quantomeno ardita, alla fine del diciassettesimo secolo, quella di tenere a battesimo una Arcadia ulteriore. Romana. E tentare, inoltre, di darle un respiro da istituzione sovra-regionale. Nazionale. Sul piano organizzativo, si profilava certamente come un’impresa titanica e senza precedenti. Ma a tale, temeraria intraprendenza socio-culturale corrispondevano meno chiare strategie politiche e estetiche che, via via, in pochi anni, si faranno sempre più problematiche. Sotto vari punti di vista.
Ambiguità di vario genere toccheranno infatti il progetto arcadico-romano a livello pretestuale prima che a livello testuale; lo colpiranno sul piano organizzativo-programmatico come, poi, vedremo, su quello formale-compositivo; e, infine, anche se può sembrare azzardato o colpevole avvicinare valori e figure in apparenza estranei uno all’altro (ma Accademia di Arcadia significa implicitamente e soprattutto 1 straordinarie contiguità, contraddizioni, connivenze e sovrapposizioni), lo sconvolgeranno nel rapporto tra autorità e autore. Il cammino che gli accademici (tutti: poeti e avvocati e medici, prelati e aristocratici e laici) saranno chiamati a percorrere sarà, anche secondo questa prospettiva, costellato di insidie, accidenti, falsi piani e detours. [End Page 21]
Crisi e ostilità (gerarchiche, formali, decisionali ecc.) si apriranno con discreta prepotenza prestissimo, in Arcadia. Remoto e paradossale sembrerà, allora il semplice impeto iniziale, da una parte eversivo, ma, pure, dall’altra e nelle migliori intenzioni, collegiale, sovraterritoriale. 2 Quell’impeto (o quel sogno) era stato invece sintomo di esigenze e ambizioni di varia natura, tutt’altro che semplici, e, comunque, individuali e divergenti già nella primissima fase dell’esistenza dell’Accademia di Arcadia. Negli anni che vanno da quello della sua fondazione, il 1690, al 1711 (cui convenzionalmente si fa risalire la prima, aperta crisi ufficiale tra arcadi) la singolare parabola di questa (ancora più singolare) istituzione sembra descrivere un tracciato tanto idiosincratico quanto definitivo. Se, infatti, come itinerario è subito contraddittorio e pieno di falsi piani, sembra però anche assumere, in modo quasi perentorio, quelle caratteristiche dilettevoli e confortanti—ma mai di facile lettura—che diventeranno, paradossalmente, sue distintive, rappresentative, nei tanti secoli a venire. E che, per così dire, lo fisseranno—con facile e categorica approssimazione—sulle pagine di certi manuali di una storia letteraria un po’ schematica e trionfalistica, fatta di formule, di definizioni e di esclusioni. L’avventura dell’Accademia di Arcadia sarà resa immortale e allo stesso tempo costretta in una specie di camicia di forza a-critica: verrà immobilizzata, congelata ma, anche, in curioso modo, canonizzata da una serie di assunti bidimensionali, poco complessi e poco dialettici. Pochissimo inquieti, e, soprattutto, assai poco appropriati.
I manuali di storia della letteratura italiana hanno adottato con allarmante frequenza il tono della favola 3 per descrivere anche solo le premesse alla fondazione dell’Accademia di Arcadia: la regina di Svezia, Cristina, il suo ‘esilio’ a Roma e il suo innamoramento per la città eterna, la sua luce, le sue opere d’arte furono, si narra, determinanti. La regale susseguente conversione sia alla religione cattolica apostolica romana sia agli umori intellettuali vivi nella città [End Page 22] del Papa renderanno possibile una prima accademia: l’Accademia Reale che Cristina raccoglierà intorno a sé conterrà in nuce e spunti e interessi e personaggi e artisti che diverranno poi parte della successiva Accademia di Arcadia. La lunga ombra di lei, l’approvazione di papi e porporati e l’adesione di aristocratici, laici e professionisti conferiranno piuttosto alla fondazione della successiva Accademia degli Arcadi un’aura che (sempre secondo certi manuali), avrà delle caratteristiche quasi sacrali. Se si abbandonano invece i confortevoli e predicatori dettami delle antologie, e si adotta una prospettiva più scettica, cauta, provocatoria e intenzionalmente più dissacrante in senso critico per a avvicinare il corpus testuale arcadico, questi stessi dati portano immediatamente a riflettere, e contribuiscono, oggi, a allontanare decisamente da una impossibile agiografia di Arcadia. L’Accademia non nasce forse, anche nel racconto compiaciuto delle antologie, su presupposti troppo eterogenei? Da un lato, una regina protestante, il suo bagaglio e il suo circolo culturale incontrano, anzi abbracciano uno spazio, una società, una lingua (anzi due: la lingua della Chiesa era, giova forse ricordarlo, il latino) e una religione se non esotici tout court, pure infinitamente distanti, differentissimi, quasi indecifrabili. Dall’altro, alcuni cardinali romani (Ottoboni in testa) danno il benvenuto a una regale peccatrice cosmopolita in esilio e ne salutano con entusiasmo gli slanci e le iniziative culturali. Solo per motivi che oggi chiameremmo genericamente di promozione politico-culturale, si potrà obiettare, si imbarcheranno allora, tutti insieme, per Citera? Nemmeno. Istituzionalizzare Arcadia diventa casomai un complesso pre-testo o uno degli strani effetti politici e mondani generati anche da questa curiosa connivenza. Oppure, l’Accademia di Arcadia che successivamente e gloriosamente (sempre secondo gli stilemi dei manuali) nascerà da tante nobili—quanto impari e confuse—velleità culturali, può fare piuttosto pensare a una creatura ambigua. Un essere i cui debiti genetici e estetici si perdono, è il caso di dire, nella notte dei tempi (e del mondo), e le cui peculiarità, allo stesso modo, si estendono su piani—e spazi—vari e differenziati. 4 Accademia di Arcadia, se mai, allora, come organismo complicato e dal nome impossibile, campo di concentramento [End Page 23] (letteralmente) o ring o intersezione azzardata e, insieme, tentativo di accentramento e di mediazione (non ancora di sintesi o di critica) tra spunti, aree e tradizioni lontani e disparati. E all’insegna di una disparità costitutiva e profonda si succederanno infatti i primi anni della sua travagliata (ma riuscita in senso sociale) esistenza.
Lo spazio della finzione pastorale è, sempre, uno spazio di difficilissima lettura o interpretazione: ambiguità senza fine, a esempio, nascono, immediate, a volerlo considerare un locus amoenus (che una certa tradizione vuole) bidimensionale e senza tensioni interne. Le cose si complicano, allora, quando si prende in esame lo Spazio (anche come idea di localizzazione, di origine, di provenienza, di appartenenza, di figurazione, di messa in scena ecc.) che appunto dà forma, alla fine del diciassettesimo secolo e nell’anno Zero dell’Accademia di Arcadia, al fatto pastorale. 5 Fa inquietare e è assai rilevante, in questo senso, l’elemento della distanza. Da qualsiasi prospettiva (o distanza) si guardi a quell’accademia, infatti, il concetto di distanza è appunto l’asse su cui questa poggia la sua sofisticata impalcatura.
Su un piano che possiamo chiamare anagrafico, per esempio, rimane estremamente significativa la variatissima provenienza degli accademici. A garantire una ragione d’essere e un rilievo nazionale a questa operazione di accentramento culturale intervenivano infatti—non è un gioco di parole, ma forse è un paradosso—da una parte il multiregionalismo, 6 dall’altra le diversissime aree professionali rappresentate dai membri dell’accademia. Se non si può parlare [End Page 24] ancora di una particolare distanza concettuale o ideologica (come quella che puntualmente si aprirà tra chi avrà a cuore l’indirizzo estetico di quell’esperienza), anche tali e tante differenze solamente di provenienza e professione proiettano subito degli interrogativi sulla singolare composizione dell’accademia. E ne mettono già virtualmente in questione, o in crisi, il connettivo gerarchico. 7 Sarà pensabile una sintonia o un accordo o, almeno, uno scambio dialettico tra i suoi accoliti, tanto differenti, appartenenti a tante Italie? Fino a che punto sarà possibile il dialogo, entusiasmi-da-debuttanti a parte? Di quale piano programmatico si potrà parlare? E questo, quale (con)fusione di intenti potrà riflettere?
Da un punto di vista meno immediatamente anagrafico, e sempre guardando all’elemento-distanza con una certa ansia o attenzione, a impensierire è pure la—confusa—velleità di universalità che sembra animare gli accademici in nome di un comune afflato estetico (semplicità e razionalità), di una comune battaglia contro il canone secentesco. Ma non fu né facile né possibile, a conti fatti, conseguire un risultato simile. Perché non fu né facile e nemmeno possibile delimitare o scavalcare certe linee di confine (delle vere e proprie trincee) ‘interne’ all’Arcadia. Per non parlare di quelle ‘esterne.’ Non che non esistessero slanci notevoli anche in quella direzione. Nello spazio della geografia, a esempio, i confini del continente-Europa in questo senso erano certamente divenuti più flessibili: prima ancora della moda del grand tour l’Accademia di Arcadia saluta sempre con entusiasmo le frequenti incursioni dei viaggiatori d’oltralpe 8 e è ben consapevole della necessità degli scambi tra accademie. Ma confini di altro genere (meno evidenti, più concettuali, e, comunque, costitutivi), non saranno superati. A incatenare in partenza certi progetti fu forse, pure, l’eccessiva ambizione. Il sogno di espansione culturale (universale o nazionale o extraregionale) era di dimensioni—troppo—grandi e vaghe per essere afferrato e trattenuto con fermezza. Per imprigionarlo sarebbe stata necessaria [End Page 25] una strategia estetica di grande rigore. Ma un programma che riflettesse—con chiarezza—le esigenze di tutti era, letteralmente, quasi inconcepibile, o, in ogni modo, difficilissimo da formulare collegialmente. Così, non ci si trovò d’accordo né per concepirlo né per formularlo. Abbandonato il sogno, tra il rigore ideologico e la fortuna socio-mondana a spuntarla fu infine quest’ultima, e la pratica artistica legittimata da quell’accademia fu soprattutto occasione di comunicazione sociale. A avverarsi sarà così, per questi arcadi, una più facile affermazione, extra-regionale e nazionale soprattutto sul piano mondano.
Sempre per rimanere all’interno di un perimetro noto, tra le linee di demarcazione invisibili ma profonde tracciate all’interno dell’Arcadia capitolina dai suoi stessi esponenti (tanto contigui e intraprendenti quanto individualisti e salottieri), e sempre per continuare con una ‘parabola spaziale,’ conviene soffermarsi su un’altra delle idee più care all’Accademia, quella dell’ accentramento culturale. Torna a essere rilevante, in modo ovvio e, pure, indiretto, il concetto di distanza (o di violazione dello Spazio). Compare, qui, emblematicamente, sotto forma di distanza da un ‘centro’ e, pure, di impulso centripeto. Dalla Beozia, dalla Tessaglia e dalle province alla caput mundi. Da Pan a Gesù Cristo. Dal contributo individuale al messaggio universalizzante. Dalle ceneri dello stravagante cosmo secentesco all’istituzione di sistematica (illuminata ?) promozione culturale. Ma, come per tutti i segni, anche i sogni di quegli accademici vanno interpretati con cautela.
Il desiderio di coprire, con relativa leggerezza, delle aree tanto estese e tanto differenti (e controverse) porta a riflettere. Ancora una volta, accarezzare l’idea che fosse possibile ridurre certe distanze, con una certa disinvoltura, appare (come minimo) illusorio. Accentrare nella capitale dello Stato Pontificio discorsi, iniziative e arti diversissimi in nome di un comune, ‘nuovo’ spirito, polemico contro le ‘vacuità’ secentesche, inaugurando una ‘nuova’ Arcadia, per quanto fosse affascinante, equivaleva a compiere un passo a dire poco strabiliante. 9 C’è da credere, anzi, che senza una forte dose di leggerezza (frivolezza, o incoscienza critica?) non ci si sarebbe imbarcati in un’artificiosissima impresa che poneva accanto la città eterna, la sua tradizione e le sue valenze politiche e religiose, e un largo gruppo di professionisti, [End Page 26] intellettuali—o sedicenti tali—impegnati nel progetto di una ‘nuova’ cultura, sotto gli auspici dell’universo arcadico. Se era un gioco di potere, i rischi che si correvano erano immensi; cosa dire, poi, della posta in gioco? Canonizzare lo spirito di Arcadia a due passi, letteralmente, da San Pietro e tentare di ricrearne gli umori per legittimare la ‘nuova’ politica culturale dello Stato della Chiesa sprigionava immediatamente, come minimo, delle scintille semantiche e, allo stesso tempo, alterava il tono dello scambio dialettico. Che allora anche quest’impresa non si possa considerare, da questo punto di vista, un capriccio, un arabesco di barocca maniera?
Tale, complicato fenomeno si può forse leggere—ma né liquidare né risolvere—in questo modo: come sempre, forse come mai, Roma assumeva in quel momento un valore esponenziale. E terribilmente controverso. In certo modo, anche minacciosamente castrante. Che tipo di riferimento era divenuta? Di che genere di riflessione (e di genuflessione) era ora oggetto, o, piuttosto, soggetto? Quale caput mundi si tentava questa volta di rifondare, riscrivere, rappresentare? Perché certamente tutta una serie di quesiti e di gabbie, letterari e non, si aprivano anche solo a volere figurare la città eterna al centro—come centro—di una qualsiasi avventura estetica. Figurarsi poi se questa coincideva con quella dei nuovi arcadi. Per dare un’idea di quanto complessa potesse essere un’impresa che tenesse conto di Arcadia e Roma (e di Arcadia a Roma) come di due punti cardinali di un universo la cui dimensione temporale è sospesa e estrema per definizione, si pensi ai modi della rappresentazione (in Arcadia erano contigue, per di più, pratiche artistiche differentissime). Ai modi della politica (e qui, come per incanto o, come in una vertigine, automaticamente si pone anche la questione delle committenze, i.e. delle ‘occasioni’ di poesia, di pittura, di architettura, di musica, di scultura ecc., della composizione all’improvviso ecc). E ai consolidatissimi modi rituali tipici solo della corte vaticana. Ma non solo. Gli effetti di una eco prepotente si propagavano, da un punto all’altro di quel mondo (oltretutto, cattolico-apostolico) per toccare il cosmo ulteriore di Arcadia: un cosmo, che era, per quanto fittizio, sfuggente e pagano, anch’esso carico di tempo, valenze, ambiguità e tradizioni. Con un landscape, per di più e al di là di qualsiasi altra considerazione, tanto tipico e complesso quanto drammaticamente differente dallo skyline dell’urbe romana. L’accademico, così, proiettava la sua ombra e si dibatteva in campi (immaginari e non, coevi e non) prepotentemente suggestivi, ma significanti per estremi, pieni di riferimenti 10 [End Page 27] e aperti, così, alla confusione e al rischio, alla violenza dell’interpretazione, e a quella della creazione. Tali e tante suggestioni erano lì anche per incatenare, non solo per incantare: il piacere (pure quello estetico) che nasceva dall’aver scelto di mediare tra i ‘migliori’ mondi possibili minacciava la conseguente, inevitabile, complessità della poiesis.
Un’altra minaccia, o forse semplicemente un’altra mina, o un altro elemento che minava o che era comunque parte integrante di quell’esperienza era senza dubbio costituito dal rapporto che legava autorità e autore. Ancora una volta, a una prima occhiata, neanche questo sembra essere un fenomeno tanto eclatante: in un’accademia, anche, a suo modo, di corte, non dovrebbe stupire l’esistenza di legami di potere. Oltretutto, l’istituzione-Arcadia non viveva solo di questi legami. Non tutti gli artisti d’ Arcadia, infatti, erano vincolati strettamente alla committenza 11 : tanti di loro esercitavano il loro talento ad laterem di una qualche altra attività e/o professione; in vari casi scrivevano, recitavano ecc. per ‘diletto’ (parola onnipresente nella rievocazione scolastica di quell’accademia), ricoprendo, nella vita non-immaginaria, delle alte cariche o espletando delle funzioni pubbliche. Molti si formavano però a quel laboratorio attraverso un rapporto di dipendenza economica da questo o quel signore (o monsignore), celebrando questa o quella circostanza. 12 In certi casi, il cammino di alcuni di loro (si pensi a esempio a Metastasio, Frugoni e Rolli), rimarrà segnato dall’iniziale esperienza arcadica e li porterà a ri-percorrerla, in un altro paese o presso un’altra corte e con altri—a volte più alti—incarichi. Se si pone l’accento sull’aspetto comunicativo dell’attività dell’accademico, una parte significativa di essa è rappresentata già a Roma anche dal suo valore ufficiale. L’accademia aveva assunto le caratteristiche di una vera e propria istituzione: appartenere all’Arcadia—e le adesioni erano numerosissime— [End Page 28] implicava espletare delle mansioni, ricoprire delle cariche, sostenere dei ruoli, partecipare a dei concorsi. L’arcade vantava un’identità e una reputazione proprio in quanto arcade: era un personaggio, e, per di più, un personaggio in vista, se non ancora popolare. La società guardava a lui, e a lei (rilevante era anche l’incidenza femminile) con rispetto, chiedendo loro di intervenire sulla scena artistica, seguendone con attenzione le mosse e gli exploits, e dando poi a questi, materialmente, l’imprimatur. Per quello che riguarda il fatto letterario a esempio, l’attività editoriale era fervida: a confermare il carattere ufficiale e collettivo di quell’ officina, di quell’idea di poesia come mestiere, miscellanee di componimenti poetici (le Raccolte) venivano stampate frequentemente e con puntualità per i tipi di questa o quella casa editrice (nella maggior parte dei casi era una casa editrice capitolina, spesso la Buagni, la De’ Rossi o la Salvioni). Ma una delle caratteristiche che rende quell’Arcadia un fenomeno a sé, e un fenomeno inquietante, torna a essere la clamorosa contiguità o connivenza tra quell’idea e quella pratica di poesia e il fatto che venissero esercitate, amministrate e divulgate nel territorio originale e precipuo della Chiesa cattolica apostolica romana. Con il completo sostegno dell’establishment vaticano (fattore che senza dubbio rendeva più attuabili tanti progetti). Tuttavia, anche con quegli indiscutibili appoggi e vantaggi materiali, rimaneva aperta la questione relativa alla complessità intrinseca alla poiesis. Se numerosissimi erano gli elementi che portavano a credere che in quell’ Arcadia si vivesse un clima ideale (protezionismi, efficientismo, occasioni e suggestioni vivissime), lasciare un segno sulla scena dell’arte o comporre era equivalente anche a un’impresa da funamboli: tanto sospesi e in bilico si era tra suggestioni, mondi, modi, spunti, e regole disparatissimi. E prepotenti.
In quel delicato e spinoso processo e all’interno di un tipo di spazio (di uno spazio ulteriore) che potremmo chiamare mito-poietico, uno degli interrogativi più insidiosi che si (im)poneva all’arcade romano era, a esempio, quello relativo al motivo classico. Che tipo di attualità si poteva regalare a quel discorso? Come rivisitarlo? In che luce presentarlo? In che modo era possibile o necessario prendere le distanze da certi modi di figurazione secenteschi? Quali i punti della tradizione grecolatina da recuperare? Su che basi teoriche? Tra quanti e quali mondi si poteva mediare? Quanti e quali campi semantici si dovevano attraversare? Quali i Diktat, i principi (e i prìncipi) cui obbedire? E Roma, in termini di rappresentazione, che ruolo avrebbe ricoperto? E Arcadia? [End Page 29]
Spia di un percorso, ancora una volta, tortuoso e difficile, fu la discussione delle leggi costitutive dell’accademia che tenne presto impegnati tanti arcadi e che vide contrapporsi (e delimitare due fazioni 13 fieramente avverse), il Gran Custode dell’Accademia, Giovanni Mario Crescimbeni e il filosofo Gianvincenzo Gravina. Ancora e sempre, il fatto che Roma rappresentasse l’agorà, il ring, o lo spazio delegato (e eletto) a incorniciare quell’evento rende solo in apparenza tutto più seducente e scenografico: a uno sguardo più attento, la ‘centralità’ di Roma fa diventare più complessa ogni cosa.
Roma (è inevitabile tornare su questo punto) viveva, oltretutto, quel momento di tensione culturale in modo singolare. In varie altre regioni italiane (si pensi alla Toscana e al fenomeno napoletano, a esempio), tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento, le inquietudini intellettuali erano tutte rivolte, è stato notato, “razionalisticamente” 14 in direzione antibarocca. Ma nella città eterna non era possibile riconoscere—come altrove—una classe intellettuale tradizionalmente impegnata a porsi e a discutere questioni estetiche. 15 Gli spunti e la dinamicità di altre scuole di pensiero come le eco di altri salotti culturali arrivavano alterati e attutiti anche per effetto della Curia Pontificia. Coerentemente con queste premesse, se a Roma di razionalismo si potrà parlare, sarà sempre all’interno di un ambiente, appunto, sui generis, salottiero ma in ritardo, lento e, soprattutto, di tipo vaticano. E la spinosa questione della costituzione di Arcadia va (ri)letta tenendo conto anche di queste ulteriori [End Page 30] distanze: che in uno spazio ‘esterno’ all’accademia, separano Roma dalle altre ‘province’—più spregiudicate, vitali e aperte—; e che in uno spazio ‘interno’ a essa, rivelano delle profonde divisioni, e inibiscono dall’inizio un disinvolto scambio dialettico tra i suoi fondatori e i suoi membri. Rendendo immediatamente visibile la coesistenza (ma mai la possibilità di una convergenza) di spunti e indirizzi troppo eterogenei. E rendendo oltraggiosamente difficile la concezione di un programma, e di un programma comune.
Non sorprende, quindi, che l’accademia abbia quasi inaugurato la sua storia con un’accesa polemica: lo scontro fra Crescimbeni e Gravina e la spaccatura che ne derivò, aprono emblematicamente il cursus honorum dell’accademia. 16 Accademia di Arcadia, dunque, anche come ‘araba fenice,’ in vari sensi: un organismo che prendeva vita dalle ceneri dell’universo secentesco e da quelle dell’Accademia Reale e della sua regina (scomparsa nel 1689); dal recupero di un sistema di valori che contemplava grazia, decoro e semplicità; e dall’impossibilità di collaborare tra due membri fondatori o ideologi come Crescimbeni e Gravina.
Durante i suoi primissimi giorni l’Arcadia aveva eletto Giovanni Mario Crescimbeni—marchigiano e avvocato—suo Gran Custode. Sei anni più tardi, con un’Arcadia miracolosamente già prospera, fu affidato a Gianvincenzo Gravina—calabrese, filosofo e giurista—il compito di redigerne le leggi fondamentali, e lui le “compose in uno splendido latino arcaico, sull’esempio delle leggi delle Dodici tavole.” 17 Da questa stesura, approvata il 20 maggio del 1696, nacquero i primi contrasti tra Gravina e Crescimbeni (ché il primo se ne dichiarava apertamente il responsabile, e il secondo lo giudicava invece solamente l’interprete di esigenze comuni a tanti 18 ). Ma piuttosto che affrontare l’analisi dettagliata—e tutto sommato meccanica 19 —di queste regole, [End Page 31] è utile semmai fare riferimento, a grandi linee, alle posizioni estetiche dei due padri dell’Accademia attraverso alcuni loro testi che furono appunto pubblicati a cavallo di quel secolo. Certe irriducibili distanze ideologiche, relative alla natura della letteratura e della poesia, alla tradizione classica e all’indirizzo estetico di Arcadia risultano evidenti anche da uno sguardo solo sommario alla Bellezza della volgar poesia (1700) di Crescimbeni, e a Il discorso sopra l’Endimione (1692) e Della ragion poetica (1708), di Gravina, che sul piano diacronico lo precedono e lo seguono, e, su quello sincronico, lo avvolgono.
A Angelo Di Costanzo (e al suo “stil puro e terso”) è dedicata la maggior parte degli otto dialoghi che compongono la Bellezza della volgar poesia: nelle intenzioni del suo autore, da questi dialoghi avrebbe dovuto prendere forma un’ideale sistemazione dei canoni estetici di tutta la tradizione poetica italiana. 20 Come progetto non era certo meno ambizioso di quello che lo aveva preceduto, l’Istoria della volgar poesia (1698), che vantava di essere il primo tentativo di una storia di massima della poesia italiana (e che fu poi relativamente disprezzato sia da Baretti che da Foscolo). Crescimbeni puntava, insomma, sempre piuttosto in alto (nell’Arcadia romana veniva incoraggiata la stesura di opere sistematiche, divulgative e di ampio respiro), e senza troppi indugi tripartiva questa volta la poesia in “esterna,” “interna” e—quella superiore a tutte—“mista.” 21 Tale tripartizione voleva rappresentare sommariamente una critica alla poesia barocca (“esterna” in quanto esteriore), un ripudio di quella medioevale (“interna” perché criptica e cupa), e una decisa adesione al modello petrarchesco, perfetto esempio di equilibrio tra le due. Di qui la beatificazione di Di Costanzo, celebrato da Crescimbeni come [End Page 32] appunto il più recente e riuscito exemplum lirico della tecnica “mista.” Degli otto dialoghi che compongono la Bellezza della volgar poesia, il quinto viene dedicato alla poesia tragica, il sesto alla commedia e il settimo alla poesia epica. L’accento principale è però posto sulla poesia lirica e su certe sue forme precise: sonetto, canzonetta, sonetto pastorale e anacreontico; su certi suoi motivi: l’idillio, il “leggiadro” godimento dei beni mondani, il brio e lo spensierato “diletto” di vivere; e sul tratto grazioso, piacevole, sereno e chiaro della scrittura. Unica figura a venire recuperata dal diciassettesimo secolo è Chiabrera, perché campione di una accettabile imitazione moderna di Pindaro e di Anacreonte: il Dialogo IV tenta in questo modo di dimostrare la superiorità della poesia italiana su quella di stampo classico. La tradizione greca viene infatti condannata per la sua irriducibile e inattuale “oscura classicità”: la vis polemica di Crescimbeni liquida così l’”imitazione” degli antichi a opera dei moderni: “Una vana e poco accorta operazione, perciocché come abbiamo detto, è già moltissimi secoli che è cessata la cagione per la quale i primieri poeti greci sì fattamente composero”; 22 è questa l’ottica attraverso la quale va interpretato—e auspicato—l’utile dulci oraziano: la poesia che “insegnando diletti e dilettando insegni” rifiuta, secondo il Gran Custode dell’accademia, l’oscurità dei classici in toto. “Oscuro” veniva infatti reputato tutto quello che non fosse “leggiadro,” soave, brioso e piacevole (in una parola, “dilettoso”); e “oscuro” era anche il sistema del mito, fatto di “favole mitiche” piene di “sensuose” (e il tono qui è moralistico) e “misteriose” (e per questo pericolose e corruttrici) verità. Secondo questa prospettiva, “i termini decoro, ordine, chiarezza erano sufficientemente indeterminati per soddisfare una diffusa e confusa esigenza di rinnovamento e per, in qualche modo, riassorbire (attraverso la rivalutazione del Chiabrera) l’articolata eredità secentesca.” 23 I modesti ma ambiziosi criteri normativi crescimbeniani incontravano comunque (e forse proprio per la loro ambiziosa mediocrità) il favore dell’aristocrazia, della più alta Curia romana (cui puntualmente venivano dedicati), dei prelati, degli uomini di cultura e di lettere non solo a Roma, ma in tutta Italia (le colonie arcadiche, dal 1690 in poi, si erano infatti moltiplicate in tutta la penisola).
Felice in vero, e al pari degli antichi secoli chiaro ed illustre, si dee il nostro riputare, per l’ ornamento e splendore che in lui si trasfonde dalle varie e [End Page 33] mirabili dottrine; delle quali altre con lo scoprimento di nuove cose produconsi; altre che già eran cadute, risorgono; altre che furon lungo tempo da tenebrosa ignoranza adombrate, felicemente si svelano. 24
L’incipit del Discorso sopra l’Endimione 25 è significativo: perché in esso la storia dell’uomo, come ha rilevato Amedeo Quondam, è considerata “come lo svolgersi e l’approfondirsi d’una stessa civiltà, quella classica”; e perché, già in questa occasione, Gravina rende chiara “la sua profonda esigenza classicista e la spinta ad una storicizzazione in questa prospettiva dei problemi della cultura.” 26 Come impostazione non potrebbe essere più simmetricamente dissimile dagli sforzi schematizzanti di Crescimbeni: ché dove l’ambizione dell’ enciclopedico e dell’ erudito conduceva il Gran Custode d’Arcadia a sistematiche e precettistiche inclusioni e esclusioni di generi, motivi e figure, qui il filosofo calabrese manifesta piuttosto lo sforzo dialettico di leggere la storia della civiltà in modo unitario, senza mai liquidare la tradizione classica. L’unico elemento a essere bandito e bollato d’infamia è questa volta, nel sistema graviniano, l’ignoranza, ostile a qualsiasi corretta valutazione scientifica della storia e della realtà (“verità”). Il codice crescimbeniano stigmatizzava le “favole mitiche,” giudicandole “misteriose” e “oscure,” e per questo foriere di pericoli. L’aspetto mitico (da riferire alla tradizione classica) e quello eroico (presente nell’Endimione di Guidi) non vengono affatto condannati da Gravina. Al rifiuto crescimbeniano dell’esemplarità classica Gravina oppone la lettura dei grandi testi del passato come superamento effettuale dei residui barocchi e come premessa a una nuova poetica e a una nuova estetica. Riconoscere cosa sia e di cosa sia composta la poesia, analizzarne la natura in sede teorica, illustrarne le funzioni e i modi: tutto questo è affrontato in nome di una “scienza poetica” vicina, nell’accezione, a quella che Gravina più tardi chiamerà “ragione poetica.” Il razionalismo (“risveglia l’ascosa fiamma solo chi sa per dritto filo reggere e condurre il suo [End Page 34] intelletto per entro l’intricato labirinto delle idee confuse”); 27 l’amore per il vero (“perciò, toltene le parti nelle quali il poeta si propone di generar meraviglia, la sua impresa è di rassomigliar il vero, e di esprimere il naturale con modi, locuzioni e numeri adattati al suggetto che si è proposto”); 28 la rivalutazione dei classici (“la sana idea della poesia è stata vivamente espressa da Omero, ne’ di cui maravigliosi poemi si ravvisano tutte le condizioni, tutti i gradi e tutti i costumi degli uomini figurati al vero esempio della natura”); 29 la fantasia come componente necessaria della poesia (“perché la poesia la quale ha per ultimo segno il ben dell’intelletto, ha per suo vase la fantasia, per la quale trasfonde nell’intelletto le saggie conoscenze ch’ella ricopre di immagini sensibili”); 30 la conseguente critica all’atteggiamento dei contemporanei—ancora accecati dall’abbaglio barocco—verso la poesia (“appo la maggior parte oggi si riduce tutta—la poesia—verso gli orecchi, né di lei si avverte o si cerca di esprimere altro che lo strepito ed il romore di ben risonanti vocaboli”); 31 una prospettiva universale della storia nelle sue differenti fasi (“E pure per quanto scuotano e dilatino i loro aforismi essi—i contemporanei, imbevuti da ‘avari e ambiziosi precetti’—non potranno comprender mai tutti i vari generi dei componimenti che il vario e continuo moto dell’umano ingegno può produrre di nuovo”) 32 : sono tutti concetti che verranno ripresi e sviluppati nella Ragione poetica (1708). Anche la nozione, centrale, dell’ utilità della poesia, presente nel Discorso sopra l’Endimione (“eccitando l’attenzione e traendo l’animo delle terrene cose, lo solleva sopra sé stesso, sicché si rende più libero e spedito da quei legami, co’ quali la natura corporea avvolgendoci, ritarda il nostro volo verso la contemplazione del puro e dell’eterno; essendo questa una delle utilità alle quali è indirizzata la poesia, oltre il raro e nobil diletto che da lei piove”), 33 ricorrerà, priva della nota neoplatonica ma carica di slancio civile, alla fine del trattato del 1708. Le parole quasi conclusive di questo: “affinché per sé medesimi—gli umani ingegni—possano da’ poeti rintracciare tanto la scienza delle cose universali e divine, quanto la cognizion de’ costumi ed affetti, e delle cagioni onde le umane operazioni son [End Page 35] mosse,” 34 segnano un completamento e un superamento del Discorso sopra l’Endimione in senso critico e in senso programmatico. E non solo: le posizioni di Gravina testimoniano un’irriducibile distanza e costituiscono un’estrema obiezione (o un vero e proprio atto d’accusa) alle norme e alle regole auspicate dal Gran Custode dell’Accademia.
E’ essenzialmente in questi termini di divergenza, privi di punti di riferimento e di intenti comuni, che già all’inizio del secolo, si può dire maturasse l’impossibilità di un programma estetico che unisse i membri dell’Accademia di Arcadia. Quattro anni dopo la pubblicazione della Ragione poetica una lettera di Gravina a Scipione Maffei sancirà ufficialmente la scissione tra arcadi, smascherando in modo insanabile e inoppugnabile la—già annunciata—frattura tra Crescimbeni e Gravina. I lunghi e gloriosi anni di un’Accademia di Arcadia sempre più affollata seguiranno questa crisi.
La storia intellettuale del Settecento italiano, da qualsiasi prospettiva la si voglia analizzare, è inaugurata anche da questa curiosa esperienza arcadica, i cui segni distintivi non si possono mai leggere senza riflettere anche sul loro opposto (afflato a-critico vs polemica ideologica; multiregionalismo vs provincialismo; cosmo cristiano vs cosmo pagano; landscape pastorale vs landscape urbano; rifiuto vs recupero del tema classico; ecc.). Il ruolo dell’intellettuale, a esempio, è messo profondamente in questione ma, allo stesso tempo, è posto in rilievo: Quondam parla, a proposito della posizione di Gravina, di un “fenomeno di inversione di tendenza” per quello che riguarda “la collocazione tradizionalmente ‘cortigiana’ del letterato,” nel rapporto tra “autorità” e “verità.” Nella problematizzazione di quale sia la funzione della poesia (se considerarla cioè “strumento di conoscenza e di mediazione di scienza, oppure elemento decorativo riferibile soltanto a una prassi socio-mondana” 35 ), risiede uno degli interrogativi più polemici—e sovversivi—di quegli anni in apertura di secolo, e una delle questioni più caratteristiche di quegli intellettuali che opteranno per una pratica poetica (e un ruolo culturale) di un tipo o dell’ altro. Né l’aristocratico né l’uomo di curia né l’intellettuale né l’artista potrà eludere certe domande. Per quanto effimero o artificioso [End Page 36] o ambiguo fosse il suo sogno, l’arcade sarà costretto a scuotersi dal suo utopico sopore. E a misurarsi con un mondo e dei modi estetici complicati, socialmente e culturalmente inquieti e in progress. Lontanissimi da quelli della favola antica.
Footnotes
1. E’, del resto, sempre un’accademia.
2. Oppure, una certa inquietudine risiedeva anche, significativamente, proprio nella stessa sedicente extra-territorialità dell’Accademia. E’ una ‘extra-territorialità,’ quella costitutiva della gerarchia accademica, consapevole di sé, in effetti, a vari livelli. Al di là del piano solo spaziale e burocratico, tracciare i confini di una nuova Arcadia raccolta e operante in quei giorni sulle sponde del Tevere, significa anche azzardare un’ ipotesi di lettura subito ambigua in senso concettuale, estetico e pre-testuale.
3. Se è vero che i documenti a disposizione dello studioso sono (e sono stati) indubbiamente esigui per la puntuale ricostruzione di quel momento, è vero anche però, che sarebbe oggi auspicabile rivolgere a esso tutt’un altro tipo di attenzione: meno ottimista, retorica (e riduttiva), più sottile e articolata.
4. Abbiamo cercato qui di mantenere, intenzionalmente, il tono della favola adottato in genere da antologie, manuali di storia della letteratura ecc. Sarebbe troppo lungo fare riferimento a tanti di essi. Non si vogliono qui condannare o disprezzare in toto certe—sentimentali—impostazioni: si auspica però di proporre, o sovrapporre a esse altre possibili chiavi di lettura di un fenomeno che senza dubbio può ancora affascinare. E, come sempre nel caso delle fascinazioni, inevitabilmente, eludere.
5. Non è né intenzione né ambizione primaria di questo studio considerare l’accademia di Arcadia l’esemplare più significativo della lunga serie di accademie pastorali, presenti, peraltro, in vari secoli della storia delle corti italiane. Qui, semmai, si vuole tentare di riconoscere all’istituzione arcadica romana una sua problematica unicità: perché il fatto pastorale e il tema arcadico quella volta trovarono espressione e impulso e committenze e ambiguità in uno spazio sociale specifico, la corte papale, e in un luogo geografico, Roma, attraverso il contributo di intellettuali e accademici a volte acutamente consapevoli di quanto fosse singolare l’accostamento Arcadia-Roma. E di quanti problemi potessero nascere a volere rappresentare, in termini di figurazione estetica, un cosmo che assumesse le sue caratteristiche da queste coordinate di base.
6. Può essere utile—anche rischiando l’accusa di semplicismo—fornire qui i nomi e le città di origine dei quattordici letterati che si riuniscono per la prima volta nel giardino dei Padri Riformati a San Pietro in Montorio sul Gianicolo per tenere a battesimo l’accademia: Giovanni Mario Crescimbeni (Macerata); Vincenzo Leonio (Spoleto); Silvio Stampiglia (Latina); Giambattista Zappi (Imola); Paolo Coardo (Torino); Carlo Tommaso Maillard (Torino); Gian Vincenzo Gravina (Roggiano Calabro); Pompeo Figari (Genova); Paolo Antonio Del Negro (Genova); Melchiorre Maggi (Firenze); Agostino Maria Taja (Siena); Jacopo Vicinelli (Roma); Paolo Antonio Viti (Orvieto); Giuseppe Paolucci (Spello).
7. Non è che qui si ritiene fosse stato auspicabile, invece, per la composizione di quell’accademia, una completa ‘omogeneità regionale’: ciò che rende quell’Arcadia a-tipica e di grande interesse è anche l’elemento misto o pseudo-nazionale; la cosa però, mette in evidenza e aggiunge, prevedibilmente, dei sintomi di malessere a quell’avventura.
8. In fondo, tutto era cominciato dal viaggio di Cristina in Italia; l’accademia doveva una delle sue ragioni d’esistere proprio a quella sua impresa, per non parlare poi delle svariate implicazioni sottese dal motivo del viaggio nell’universo pastorale-arcadico. In un curioso modo, ogni motivo sembra stare in piedi, o coesistere, in questo ambizioso progetto, con una certa coerenza.
9. Ma nei periodi di transizione è sempre troppo pesante l’eredità contro la quale si reagisce: uno dei pericoli era appunto quello di tornare a essere, anche se reattivamente, vacui e stravaganti.
10. Uno di questi è quello, d’obbligo, a Virgilio: due delle coordinate spaziali fondamentali nel suo immaginario poetico furono appunto Arcadia e Roma.
11. E’ merito di Giovanna Gronda di avere sottolineato questo aspetto dell’accademia romana: “Non si tratta dunque di una caratterizzazione univocamente sociale—economica o professionale—, così come di scarsa rilevanza è ormai in quest’epoca la condizione di abate, comune ancora a più d’uno di questi poeti: l’unico dato costante, certo più significativo che in altri secoli, e particolarmente importante nella prima metà del Settecento per i poeti che rimasero in Italia, è la loro appartenenza all’accademia dell’Arcadia, nella sede centrale o, per chi non fosse romano, in una delle numerosissime colonie ‘dedotte’ nei centri maggiori e minori d’Italia.” In Poesia italiana del Settecento (Milano: Garzanti, 1978), xi.
12. Circostanza che era il più delle volte religiosa o legata a filo doppio al calendario cattolico, e, perciò, non del tutto ‘improvvisa.’
13. Non è il caso, ancora una volta, di stupirsi: l’Accademia di Arcadia, proprio per affermare la sua esistenza, si nutre sin dall’inizio, letteralmente, concettualmente e figurativamente, di linee di confine, demarcazioni e barriere senza fine.
14. D. Consoli, Dall’Arcadia all’illuminismo (Bologna: Cappelli, 1972), 30. Come assunto è, comunque, discutibile: in ogni regione tale tendenza assumeva caratteristiche assai differenti.
15. Si consideri, a questo proposito, la situazione intellettuale napoletana, che assume in questo contesto un valore tanto esemplare quanto distante da quella della capitale dello Stato della Chiesa. “La profonda, radicale diversità delle situazioni culturali ed ideologiche di Napoli e Roma va indicata nella sostanziale differenza della tradizione intellettuale e nell’ancora più sensibile diversità d’esperienza storica e sociale, per cui, mentre a Napoli abbiamo visto alla base del rinnovamento il ‘ceto civile’ compatto nella rivendicazione dei suoi diritti politici e della sua cultura ed ideologia in una tensione audacemente moderna, a Roma manca la spinta d’un qualsiasi ceto in ascesa ed interessato a modificare a fondo la situazione esistente, in tutti i campi, e più ancora manca una solida tradizione culturale cui richiamarsi e da cui partire: la presenza della Curia, sempre pronta ad agire in senso nettamente negativo nei confronti della formazione delle idee, e la mancanza d’una qualsiasi attività che non fosse più o meno alla Curia legata, spiegano la situazione d’incertezza, d’indecisione che caratterizza la vita romana degli anni intorno alla fine del secolo.” Così Amedeo Quondam, nel sempre illuminante Cultura e ideologia di Gianvincenzo Gravina (Milano: Mursia, 1968), 68.
16. Quella felice e fortunata istituzione prese forma appunto da un confronto aspro e senza esclusione di colpi tra due fazioni, che in qualche modo si spartiranno infine, a grandi linee, le idee e gli indirizzi—soprattutto letterari—del secolo che allora cominciava.
17. Quondam, op. cit., 144.
18. Vedi Quondam, op. cit., 145, n. 40.
19. In genere, la scissione dell’accademia è stata analizzata soprattutto attraverso la celebre lettera di Gravina a Scipione Maffei (datata Settembre 1712), intitolata, appunto, Della divisione dell’Arcadia. Quel problema verrà preso in esame anche da un controverso poema eroicomico su accademia, scissionisti e non, composto dall’arcade Domenico Ottavio Petrosellini, subito dopo lo scisma, e chiamato Il Giammaria o Dell’Arcadia liberata. Il poema—segnalato da Natali e Quondam—è di notevole interesse sia perché è stato relativamente trascurato, sia perché rappresenta un singolare sforzo letterario: affronta quel soggetto in modo obliquo e, pure, dall’interno, nell’ ambiente e nella prassi poetica di quel milieu culturale.
20. Giulio Natali la giudicò invece “la codicificazione della povera estetica arcadica” nel volumetto Giovanni Mario Crescimbeni (Roma, 1928), 13.
21. Così Crescimbeni: “La prima si chiama esterna: ed è quella che non d’altro vaga, che di lusingar con l’apparenza, s’attiene al solo dolce . . . ed in somma tutta al di fuori intesa, il frontespizio solamente ad abbellir procura, né la prende alcuna briga dell’interno dell’edifizio. A quella totalmente opposta è la seconda, che interna si chiama, la quale dell’apparenti cose nulla guardinga, si studia solamente di celar, diciam così, sotto ruvidi massi preziose gemme, empiendo le composizioni di profondi sensi, di nascosti misteri, e di filosofici, e teologici insegnamenti . . . or perché quegli è buon Poeta, il quale accoppia in guisa l’utile al dolce, che dilettando insegni e insegnando diletti . . . che il Poeta si sforzi di unirle ambedue, e con ambedue talmente abbellire i parti del suo ingegno, che sotto leggiadra, e vaga corteccia, si racchiudano nobili ed efficaci sensi, facendo in tal guisa il componimento possessore della terza perfetta bellezza, che ò detto appellarsi mista”; da G. M. Crescimbeni, Bellezza della volgar poesia (Roma: Buagni, 1700), Dial. I, 4–5.
22. G. M. Crescimbeni, op. cit., Dial. IV, 51.
23. Da Poesia italiana del Settecento a cura di G. Gronda, ed. cit., xii.
24. Da Prose di Gianvincenzo Gravina, a cura di Paolo Emiliani-Giudici (Firenze: Barbera, Bianchi e Comp., 1857), 249.
25. Endimione è il titolo della favola drammatica in cinque atti composta, questa volta (la leggenda di Endimione fu, nei secoli, frequentatissima), da Alessandro Guidi; il commento critico di Gravina ne accompagnava la pubblicazione, nel 1692, e quel fatto segnò un momento importante (sia dal punto di vista dello status editoriale sia da quello della riflessione critica) dell’allora giovanissima Accademia di Arcadia. Il discorso di Gravina usa la favola di Guidi—di cui ammirava soprattutto la struttura metrica—un po’ come un’occasione per affrontare vari problemi estetici inerenti alla questione della poesia e, soprattutto, come spunto per perorare la causa classica.
26. Quondam, op. cit., 74.
27. Prose di Gianvincenzo Gravina, ed. cit., 251.
28. Ibid., 253–54.
29. Ibid., 255.
30. Ibid., 257.
31. Ibid., 257.
32. Ibid., 261.
33. Ibid., 253.
34. Ibid., 148. Così prosegue Gravina in questo passo della Ragione poetica: “. . . in modo che facendo de’ poeti buon uso, e traendo da loro il più sano e utile sentimento, ed acquistando colla consuetudine loro copia e facilità d’espressione, possano gli uomini diventar eloquenti nella prosa e ne’ discorsi familiari, per giovare tanto alle private cose, quanto alle pubbliche.”
35. Cfr. la “Nota critica” che apre l’ edizione curata da Amedeo Quondam degli Scritti critici e teorici di Gianvincenzo Gravina (Bari: Laterza, 1973), 601.