Borgese e Manzoni

Analizzerò le osservazioni che Borgese ha fatto su Manzoni nei suoi saggi critici e politici e nelle sue opere narrative. Vorrei mostrare l’importanza o l’utilità che alcune pagine borgesiane hanno ancora oggi nell’ambito di una riflessione critica su Manzoni; e illustrare lo sviluppo spirituale di Borgese, dal momento che ogni fase di quello sviluppo sfocia anche in una serie significativa di giudizi sull’opera o la religiosità di Manzoni.

1. Nel 1903 Borgese è un giovane laureando, intelligente, preciso, capace di audaci sintesi critiche. Scrive il suo primo libro, la Storia della critica romantica in Italia pubblicata due anni dopo da Benedetto Croce, al cui interno Manzoni ha già un ruolo di particolare importanza. Borgese analizza i testi principali della critica letteraria romantica italiana, dalla Lettera di Grisostomo di Berchet alla Storia della letteratura italiana di De Sanctis, e sviluppa una interpretazione generale del periodo che ne vide lo sviluppo. In Italia, sostiene, un romanticismo vero e proprio non ci fu: l’insurrezione romantica servì a liberare il classicismo dalle “pastoie accademiche” e a renderlo più autentico (St xvi) 1 ; il romanticismo italiano, dal suo punto di vista, [End Page 38] sarebbe stato una semplice riforma interna del classicismo. Parlando di classicismo Borgese si riferisce a un gusto letterario caratterizzato da tre istanze essenziali: l’esigenza di rappresentare il vero (ut pictura poësis); il senso della misura (la mediocritas oraziana); e l’esigenza di giovare con la poesia alla moralità del lettore (l’utile dulci). La critica letteraria di tipo accademico fraintende queste istanze, applicandole come norme vincolanti e intendendole in senso restrittivo: non afferma il necessario rapporto dello scrittore con la realtà, ma insiste su una corrispondenza quasi pittorica fra l’immagine letteraria e la cosa rappresentata (St 31). Richiamandosi al senso della misura i poeti accademici cercano invano di giustificare la loro incapacità a descrivere i sentimenti forti e sublimi; la poesia si riduce così a un “sentimentalismo femmineo sorridente fra le lagrimucce” (St 36). L’esigenza morale, infine, diventa moralismo: “Le convenienze e la castigatezza debbono venire in ogni cosa riverite” (St 73). La critica letteraria ispirata da questo male inteso classicismo è incapace di capire la vera natura della poesia: è dogmatica, pedante, verbosa, si perde in un’analisi minuziosa delle parole isolandole dal contesto espressivo. I romantici italiani, prosegue Borgese, non avversarono mai i principi essenziali del gusto letterario classico. Per Manzoni il vero fu sempre l’oggetto delle grandi opere d’arte. Il senso della misura per lui fu un principio stilistico ed umano fondamentale: “gli artisti liberi degli altri paesi, da Byron a Heine, a Vittore Hugo, amarono nei sentimenti e nelle espressioni l’eccessivo, il meraviglioso, il monstre”; Manzoni “seppe sorridere senza sghignazzare e commuoversi senza troppe lacrime e in ogni momento della vita e dell’arte cercar per sé e consigliare agli altri l’equità del giusto mezzo” (St 196). La ricerca dell’utile morale, infine, è una costante dell’arte manzoniana, dai versi giovanili del carme In morte di Carlo Imbonati (“né proferir mai verbo, / che plauda al vizio, o la virtù derida,” I 198) alle più tarde teorie che propongono, come scopo dell’arte, “il vero, l’utile, il buono, il ragionevole” (R 251–52). Conclude Borgese: “Il gusto letterario che Manzoni, presso che incontrastato, impose ai suoi contemporanei è ciò che si può immaginare di più virgiliano ed oraziano . . . mai s’era stati più ligi alla ricetta dell’utile dulci ed alla formula secondo cui l’arte serve al fine di giovar dilettando” (St xvi); Manzoni non è lontano “da Orazio nella calma sorridente e[d è] più virgiliano di Virgilio nello stile” (St 241). [End Page 39]

È noto d’altra parte che Manzoni fu ostile al mondo classico che gli pareva intellettualmente ed eticamente orgoglioso. 2 Gli autori classici limitavano la rappresentazione dei personaggi socialmente umili alle situazioni comiche, e l’autore dei Promessi sposi sentiva questa convenzione lontana da sé. 3 I valori della storiografia antica lo sdegnavano: trovava atroci le gesta di Scipione Emiliano (Pt 272), falsa la virtù di Bruto (Pt 295), immorale il suo desiderio di gloria (In 161), spietati i progetti politici di Catone e Nasica (Pt 269). Nella Lettera sul romanticismo Manzoni definisce la morale degli antichi romani come “voluttuosa, superba, feroce, circoscritta al tempo, e improvvida anche in questa sfera, antisociale dove è patriottica, ed egoistica quando cessa d’essere ostile” (R 251). Il classicismo, nell’800, non si limita ad essere un gusto letterario, ma si propone anche come sistema di valori morali e i suoi ideali non coincidono in questo caso con quelli del più avveduto romanticismo italiano. Nella Storia della critica romantica Borgese parla raramente e con qualche oscillazione del classicismo così inteso, ma lo fa con sostanziale chiarezza, ritornando alla contrapposizione di fondo fra classicisti e romantici. Essi guardavano alla vita con un “diverso ideale” (St 246); la morale di Ugo Foscolo “fu alfieriana e pagana e stoica,” “lontanissima da quella di Manzoni” (St 258); Manzoni e De Sanctis, d’altra parte, furono propugnatori più “dell’onestà che dell’eroismo nella vita”; sostennero “le parti del debole contro quelle del vincitore” (St 335). Tutte le volte in cui dà al classicismo un significato prevalentemente morale, Borgese colloca la personalità di Manzoni nello schieramento anticlassico. Le sue conclusioni hanno così un’apparenza contraddittoria 4 di cui la critica manzoniana a lui contemporanea o successiva ha però mostrato l’autorevolezza. Lo stile di Manzoni è parso [End Page 40] virgiliano, o latino, o classico, a Pascoli (Biagini 98), Angelini (227–40), Piovene (3), Ulivi (208); Emilio Cecchi, riferendosi ai Promessi sposi, osservava che “miracoli d’una poesia così potente e insieme così dolce e misteriosa, li aveva compiuti, più di diciotto secoli prima, soltanto Virgilio” (Ritratti 166). Come l’ideale cristiano spinga Manzoni a rigettare il mondo classico è stato spiegato da Maggini (7–33), Ruffini (II, 254–65), Treves (591–607), Ragonese (23). Paratore infine riconduce l’apparente contraddittorietà che caratterizza il rapporto di Manzoni con il mondo classico al “tipico carattere a doppio taglio” della cultura latina, al suo “doppio fondo” (131), alle sue “ansiose antinomie” e “drammatici perché” (132). Le conclusioni di Borgese, insomma, erano solidamente fondate, e, come sarebbe accaduto altre volte alle sue interpretazioni, inauguravano anche una fortunata tradizione critica. Se si dovesse ricercare quante idee “sono in circolazione che Borgese enunciò la prima volta—osservava Cecchi—ce ne sarebbe del lavoro da fare, e proficuo” (Letteratura 473). 5

2. Il secondo studio di Borgese su Manzoni è meno felice. Nei testi scritti fra il 1905 (anno di pubblicazione della Storia della critica romantica in Italia) e il 1914 (l’anno del saggio su L’innominato) Borgese si riferisce spesso ad una aspirazione aristocratica, ad una propensione alla vita eroica la cui conoscenza ed il cui possesso egli presuppone nei suoi lettori (e di cui non spiega però il significato). Loda la grandezza, l’altezza, accenna al bisogno di distinguersi dal gregge, di superare la comune umanità; esprime un desiderio di primeggiare più attento ai gesti che alle opere; e ripropone fondamentalmente le pose superomistiche assunte in quegli anni da D’Annunzio. Benedetto Croce parlò addirittura di contagio: l’infezione dannunziana diffondeva fra i giovani del primo ‘900 un’astratta velleità di primato (Cultura 119; 174) di cui essi non riuscivano a liberarsi anche quando, come nel caso di Borgese, ne intuivano i limiti psicologici e morali. Scrivendo nel 1909 un libro su D’Annunzio, Borgese prende le distanze dal superomismo: critica i personaggi [End Page 41] dannunziani che immaginano “liberamente il delittuoso e il macabro” (D 99) e ne osserva l’intrinseca debolezza con una capacità critica che ad alcuni parve “senza pietà” (D 7). Ma la sua simpatia per il poeta abruzzese è innegabile, 6 e non si rivolge solo alla bellezza dei suoi versi, o alla freschezza del suo sensualismo; a Borgese piace il D’Annunzio “barbaro . . . e violento” che osa la “franca . . . negazione” di ciò che lo contraddice (D 124). “Giovanilmente amavo ogni grandezza,” dirà poi (D 9); e in quella negazione rivolta essenzialmente ad ogni norma od indicazione morale c’era, secondo lui, della grandezza. L’atteggiamento di Borgese è altrettanto ambiguo nel saggio sul Faust (sempre del 1909), dove lo scrittore siciliano distingue un superomismo “materialistico” e malato da un superomismo “spirituale” e sano, esemplificato dalla Tätigkeit, la feconda operosità pratica goethiana. 7 La distinzione si dissolve tutte le volte in cui Borgese cerca di approfondirla: quando esemplifica il superomismo sano con la poesia tedesca (“una gigantomachia,” una “prometeide,” uno “scrollare di tirsi dionisiaci,” Ig 84); quando contrappone al superuomo nietzscheano “il tipo germanico e umano dell’eroe forte contro il destino” (F 194–95); e soprattutto quando ritorna a D’Annunzio, individuando in lui un esempio della “perenne inquietudine” che nobilita lo spirito (D’Annunzio è sì crudele e ani-malesco, ma la sua animalità sarebbe riscattata da un’”ansiosa volontà di superamento,” D 215, vedi anche 206–7). Nei saggi del 1909 Borgese ostenta un arrogante disprezzo per ogni forma di media umanità: Margherita è “una ingenua e insignificante donnicciola del volgo” (F 8) 8 ; i capolavori letterari sono “picchi selvaggi” ai quali i lettori comuni non possono innalzarsi perché la prudenza li spinge a “viaggiare di valle in valle, anche se devono così perdere la visione complessiva del paesaggio” (F 62). 9

Questi compiacimenti elitari rendevano quasi impossibile l’ammirazione di Borgese per uno scrittore cristiano come Manzoni, e nei [End Page 42] testi borgesiani del 1909 si colgono numerosi segnali di un imminente distacco: il tono dei Promessi sposi, ora, pare a Borgese di una “bonomia quasi sciatta” (D 188); i canoni dell’estetica manzoniana gli sembrano “illogici” (D 180); e la sua morale avrebbe le forme di un passivo “decalogo” (D 51). Il distacco non avviene, per ragioni di non immediata evidenza. Nel saggio su D’Annunzio e in quello sul Faust Borgese aveva cercato di conciliare l’inconciliabile; di affermare valori morali saldi e di giustificare contemporaneamente un superomismo che nella sostanza era quello immorale e disumano (o superficiale) del Nietzsche vulgato e di D’Annunzio. Per compiere queste impossibili conciliazioni Borgese utilizzava una “logica demenziale” (R 166) e “terribile” (R 340) di cui avrebbe lucidamente descritto i meccanismi in un romanzo autobiografico ed autocritico. Quella logica lo spinse ad annettere anche Manzoni al superomismo e a fornire un’interpretazione prometeica dei Promessi sposi, un capolavoro a cui la tradizione critica si riferiva già come al romanzo degli umili. Secondo Borgese una parte almeno del libro è animata da spirito titanico. Il romanzo, scrive, assomiglia a “un laghetto di giardino ove ogni pigmeo tocca fondo” (Sl 38); è ricco di “macchiette, quadretti di genere” (Sl 44), sembra una “novella paesana” dall’atmosfera “un po’ pesa e grassa” (Sl 39), e attira lettori “sazii di verità facilmente digeste” (Sl 42). Ma, in alcuni casi, è “smisurato nella profondità” (Sl 38), tocca le “sfere supreme”; parla di grandi anime; si rivolge ad esse privilegiando i “pochi lettori avvezzi all’aria rarefatta del sublime” (Sl 42). Renzo, Lucia, padre Cristoforo sono personaggi prosaici e banali, come si addice a una novella paesana; i caratteri dell’Innominato e del cardinale Borromeo, invece, introducono nel romanzo sentimenti superiori; “il terrore, la pietà, l’eloquenza, il miracolo, lo scorcio audace, la concentrazione tragica” caratterizzano i capitoli ad essi dedicati (Sl 45). Secondo Borgese lo stile di Manzoni oscilla a sua volta tra un registro “ragionevole e realista” (fatto di “analisi, ragione ragionata, psicologia saporosa e piana”) e uno “sublime e tragico” (Sl 43) che accompagna la storia dell’Innominato. Il romanzo di Manzoni, secondo il Borgese del 1914, assomiglia ai quadri sacri della pittura italiana, “ove in basso sta il popolo devoto e in cima, oltre le nubi, il Redentore coi suoi santi” (Sl 45). In alto si trovano la suprema dimensione morale, la grandezza; ed è in alto che Borgese vuole guardare, spiegando l’attenzione prestata da Manzoni ai personaggi popolari con le esigenze del pubblico e il carattere fiacco dei lettori italiani che preferiscono un’arte “domestica” e “cortese agli spiriti mediocri” (Sl 46). [End Page 43]

L’interpretazione dei Promessi sposi data da Borgese nel 1914 non è totalmente infondata e può vantare qualche ascendenza autorevole. Anche Momigliano in un saggio del 1913 aveva visto nell’Innominato manzoniano “la grandezza indeterminata dello spirito incoercibile negli stretti limiti di parole precise” (97), ed era ricorso a caratterizzazioni prometeiche per descrivere quella grandezza. 10 Anche Momigliano aveva colto nel romanzo “l’alternativa del significante e del trito” (40), l’”opera del genio e la sua discontinuità” (94) osservando che le “creature precise del Manzoni . . . partecipano talora della macchietta” (96). In quel saggio che aveva letto e ampiamente utilizzato, però, Borgese avrebbe dovuto trovare anche la confutazione delle proprie tesi: la presunta grandezza dell’Innominato è sgomenta di fronte a Dio (28, 38, 44); e l’”umiltà rassegnata e tremante” si rivela molto più appropriata alla condizione umana, come Manzoni la concepisce. L’idea direttiva dei Promessi sposi, scrive inoltre Momigliano, è che “la forza dell’umiltà supera la violenza” (40). È fin troppo facile trovare conferme a questa osservazione nei più intelligenti esegeti manzoniani: la scelta democratica del Manzoni consiste nell’aver trovato nel Vangelo “il fondamento ragionevole d’una morale valida per tutti e non solo per gli spiriti d’eccezione” (Accame Bobbio 16–17); e nei Promessi sposi la persona umana non assume mai le pose di un “romantico ‘personaggio’. Ogni atto non sarà mai un nobile e fiero atteggiamento; ma una responsabile determinazione, un ‘valore’ messo in opera” (Ulivi 41). Di molte cose, però, Borgese non si voleva rendere conto in quel 1914. La sua “terribile logica” (R 340) “ragionando ragionando sbuca[va] al ‘come si voleva dimostrare’” che egli si era prefisso fin dall’inizio (R 253). Nel nome di Manzoni si augurava anche l’ingresso dell’Italia nella prima guerra mondiale. 11

Nella guerra Borgese presentiva grandezza e fu interventista per questo motivo. 12 Sapendo che “il bellicoso imperialismo, avulso da una base nazionale, o sociale, si sarebbe rivelato nella sua qualità di furore individuale” (D 89), utilizzò motivi politici e ideali per [End Page 44] convincere gli italiani a partecipare allo scontro. Il motivo di natura politica era costituito dall’eccessivo potere che la Germania aveva all’interno dello scacchiere europeo. Il motivo di natura ideale rinviava ad un’antitesi fra spirito tedesco e spirito italiano: Italia e Germania rappresentavano due principi opposti della civiltà europea e la guerra avrebbe inevitabilmente portato al trionfo dell’uno o dell’altro. Nelle pagine di Borgese il cristianesimo latino, di cui Manzoni è involontario ed incolpevole campione, assomiglia intimamente al titanismo tedesco a cui viene contrapposto. Il “moderno cristianesimo,” spiega Borgese, deve essere “combattente” (Gr 4), e non in senso metaforico. Egli invita a “dare . . . delle armi a padre Cristoforo,” e a non “sottilizzare su guerra difensiva e guerra di conquista” (Ig 116). “Si deve essere con Manzoni, contro Nietzsche. A patto che ai personaggi di Manzoni, in cappuccio o in gonnella, si aggiunga un protettore vestito di ferro” (Ig 91). Se l’Italia non scendesse in campo, sarebbe la “Lucia delle nazioni” (Ig xliv). Borgese forza il senso di ogni citazione manzoniana: la rea progenie del coro di Ermengarda diventa la nazione tedesca (Ig 89) 13 ; il Cristo degli Inni sacri è “il Cristo combattente” (Ig 117; vedi anche 334); il concetto di Provvidenza è adoperato per spiegare l’ineluttabile coinvolgimento dell’Italia nella prima guerra mondiale dacché i popoli sono “strumenti semiciechi di un volere supremo che in essi si realizza” (Gi 217). Si capisce perché, nel romanzo Rubè, ascoltando i discorsi di un personaggio di Borgese fortemente autobiografico, un buon salesiano si rivolti e gli gridi “Sofista!” fuori di sé (R 313).

3. Con Rubè si arriva finalmente alla svolta. L’itinerario spirituale di Borgese cambia direzione. Quando ripensa a ciò che “egli stesso aveva detto con voce profetica, nei suoi discorsi interventisti,” il protagonista di questo romanzo autobiografico viene colto da un “brivido . . . di vergogna, e subito gli trafi[ggono] la faccia i mille spilli della cattiva coscienza di chi sa d’aver mentito” (R 75). Tutto quello che Borgese aveva presupposto per anni viene messo in crisi, e abbandonato. Perché credersi superiori agli altri? Perché volere “un destino privilegiato? e se fosse una superstizione?” Forse, pensa Filippo Rubè, “quell’unica certezza superba non è che il miraggio del vuoto” (R 26). 14 Nel romanzo Borgese individua due cause alla [End Page 45] malsana aspirazione alla superiorità del suo protagonista: le condizioni sociali dell’”infelicissima borghesia intellettuale e provinciale” (R 99) e l’educazione che essa riceve. A scuola Rubè ha assorbito “idee classiche sul destino di grandezza del suo paese” (R 15–16); la sua adolescenza era “popolata di memorie romaniche” (R 26). Suo padre “conoscendo bene l’Eneide in latino . . . giudicava che tutti . . . fossero intrusi in questo mondo fuorché i geni e gli eroi” (R 5); gli oratori dell’antichità e i condottieri del passato sono i modelli di vita che egli ha trasmesso al figlio (R 160–61) e che ne alimentano l’orgoglio esasperato. Secondo l’autore di Rubè i valori morali che permettono di sottrarsi alla presunzione eroica non derivano dalla “perenne inquietudine” faustiana o dannunziana (R 54), ma sono quelli (che Borgese indica e che il protagonista del romanzo non riesce a fare propri) dell’amore, dell’onestà e dell’umiltà. Le porte del regno sono “aperte ai mansueti” (R 313). L’umiltà permette di ritrovare la dimensione giusta delle cose e di riscoprirsi “come tutti gli altri” senza turbamento (R 74). Gli umili riconoscono i propri difetti (R 95), ammettono le proprie paure senza vergogna (R 42, 48), e pronunciano in genere le parole più sagge del romanzo. Rubè chiede ad una popolana di Calinni: “non hai mai desiderato niente?” Che il Signore faccia passare la tosse a mia figlia, risponde la donna. “No, non dico questo. Non hai mai desiderato di essere fata, principessa, regina?” Ma queste, gli dice la popolana, “sono cose che si dicono nelle favole. Perciò si chiamano favole” (R 360).

Il rifiuto dei sogni di grandezza, l’anticlassicismo etico e la riscoperta di alcuni valori cristiani fanno di Rubè il libro più vicino allo spirito manzoniano che Borgese abbia mai scritto. Il nome dello scrittore milanese non vi compare ma i riferimenti alla sua opera sono espliciti e significativi. Visitando il collegio frequentato da ragazzo Rubè ricorda le antologie lette in classe: un vir clarus “teneva concioni ammirabili” e “espugnava una capitale” o “conquistava un regno”; nella stessa città un altro vir clarus “complottava contro di lui . . . e lo bandiva in esilio”; un terzo vir clarus, avversario dei primi due, cresceva intanto nella repubblica finitima. I viri clarissimi “se li passavano di mano in mano, gl’imperi e le metropoli” (R 374); il mondo sembrava un palcoscenico allestito per loro. Uscito dal collegio Rubè ricorda due versi della Pentecoste manzoniana che lo portano in un’atmosfera totalmente diversa, all’interno della quale gli ideali di supremazia e di gloria sono fantasmi senza senso, e dove, stimolate da una riflessione sulla morte, maturano invece la preghiera e la speranza in Dio. Spesso gli autori sono in Borgese emblemi [End Page 46] filosofici ed etici: Cornelio Nepote e Plutarco riassumono qui una visione eroica e titanica dell’esistenza; l’inno sacro di Manzoni rinvia invece all’alternativa cristiana, ad una scelta compiuta in favore della modestia e dell’umiltà. 15 La scena più importante del romanzo è il colloquio fra padre Mariani e il protagonista ancora in cerca di una soluzione ai problemi creati o intensificati dal suo desiderio di assoluta grandezza. Padre Mariani gli suggerisce di aprire il proprio intelletto ai suggerimenti del cuore: non un cuore dominato dalle passioni o sentimentalmente sicuro di sé, ma un cuore ispirato dallo Spirito Santo. Lo Spirito Santo, dice il salesiano, può ispirare chiunque: “Invocatelo. Rendetevene degno con la vera umiltà” (R 312). L’umiltà qui non ha tanto un valore psicologico o morale, quanto una connotazione religiosa. È l’atteggiamento che permette all’individuo di entrare nella dimensione trascendente, di meditare sulla vita ascoltando l’eterno, di ricevere quello che il cristianesimo esprime come grazia o come dono dello Spirito Santo. A questo punto vengono ripetuti nel libro altri versi manzoniani: “Noi t’imploriam! Placabile / Spirto discendi ancora, / Ai tuoi cultor propizio, / Propizio a chi t’ignora” (R 312). È un testo laico, osserva padre Mariani citandolo a memoria, che Rubè potrà “intendere meglio dei testi sacri. È già quasi una preghiera” (R 312). 16 Dopo la stesura di Rubè Borgese capiva dunque Manzoni. Era, come ha notato Vigorelli, “tra i pochi ad aver[lo] davvero letto” (41) e si trovava nello stato d’animo giusto per riprenderne in mano il capolavoro e darne un’interpretazione critica convincente. Lo fece pubblicando nel 1923 una pur breve Recensione ai ‘Promessi Sposi’.

Nella Recensione Borgese modifica le osservazioni contenute nel saggio del ‘14: il romanzo di Manzoni non alterna parti mediocri e parti geniali: ogni pagina esprime “cose di gran lunga più ricche e grandi di quelle che appaiono a prima vista” (Dd 215). “Il favore del popolo e l’ammirazione dei dotti” non vengono contrapposti, ma [End Page 47] accomunati nell’inevitabile riconoscimento della “limpidezza” del libro (Dd 215). Renzo, Lucia, padre Cristoforo e don Abbondio fanno ora parte dei protagonisti insieme all’Innominato e al cardinale, ed insieme a “le masse, i cori, il popolo, la storia.” Nelle pagine corali, osserva Borgese, Manzoni dà il “meglio di sé” scrivendo “pagine di prosa sinfonica degne di stare accanto alle più alte liriche leopardiane” (Dd 220–21). Anche il tema del titano viene aggiornato: padre Cristoforo e l’Innominato sono “similitudini dell’incomparabile uomo d’azione di cui il poeta, maturandosi, contemplò la grandezza” (Dd 215–16); ma in Manzoni—precisa Borgese—il superomismo viene descritto dopo la sua catastrofe, “al momento della esterna o interna sconfitta” (Dd 216–17), quando la rivelazione religiosa scardina le precedenti ambizioni, l’irrequietezza nociva che ne deriva, e permette ai personaggi di concludere pacificati la propria esistenza. Questa è la considerazione centrale della nuova analisi di Borgese, e viene applicata, oltre che ai Promessi sposi, alle grandi opere che precedono il romanzo. L’ansia di grandezza, osserva Borgese, anima Carmagnola (“il maggior premio che bramo, / Il solo, egli è la vostra stima, e quella / d’ogni cortese: e, arditamente il dico, / Sento di meritarla,” C 308), Adelchi (“La gloria? il mio / destino è d’agognarla, e di morire / senza averla gustata,” A 592); Napoleone (“Ei si nomò: due secoli, / l’un contro l’altro armato, / sommessi a lui si volsero, / come aspettando il fato; / ei fe’ silenzio, ed arbitro / s’assise in mezzo a lor,” Cq 104). 17 Tutti questi personaggi abbandonano, però, gli ideali di gloria, superiorità, potenza terrena; e riconoscono valori radicalmente diversi, ispirati da Dio, seguendo i quali si avviano “ai campi eterni, al premio / che i desideri avanza” (Cq 105–6). È l’identico itinerario che Borgese cercava di seguire all’inizio degli anni ‘20; ed è vero, come osserva Momigliano, che nel ricostruirlo egli “accenna al lettore la musica della sua anima, dipinge al lettore il paesaggio della sua coscienza” (Ultimi 32). Il coinvolgimento autobiografico tuttavia non ostacola la ricognizione critica e anzi permette a Borgese di capire meglio alcune ragioni della conversione di Manzoni, grazie alle parziale e pur significativa somiglianza nella [End Page 48] storia interiore dei due scrittori. Anche Manzoni, come Borgese, aveva subito in giovinezza il fascino del mondo classico e ambito alla gloria (“Io nacqui e vissi e vo’ morir romano” scriveva al tempo del Trionfo della libertà, Paratore 95). Anche Manzoni, come e più di Borgese, si era imposto di vincere la tentazione etica che riteneva radicata nella cultura di origine classica. A dieci anni dalla data ufficiale della sua conversione l’ambizione di gloria era repressa, ma non inerte nello spirito di Manzoni e, “ricordando quella camicia di Nesso” scrive Borgese, egli “l’abbomin[a] e insieme, inconsapevolmente, la rimpiang[e], sicché, dove fu quel cociore, è ora l’asprezza del cilicio, e il risanato non si reputa sicuro del suo bene se non rievocando e maledicendo il male” (Dd 218–19). Solo nei Promessi sposi Manzoni guarda a quella tentazione, e alle passioni che avevano turbato il suo animo giovanile, “come a un procelloso dileguante passato” (Dd 224).

Il saggio del ‘23 costituisce il principale contributo di Borgese alla conoscenza di Manzoni: fa luce su una parte soltanto della matura spiritualità manzoniana, 18 ma è tutt’altro che scontato. Chiarisce innanzitutto quale sia il disvalore che nella visione manzoniana delle cose si oppone all’umiltà e alla rassegnazione che talora ne deriva: non l’impegno pratico, l’azione terrena; ma l’amor proprio, l’ammirazione per se stessi, il compiacimento per il proprio potere o la propria virtù—una serie di errori morali che il classicismo condiviso da Manzoni in gioventù, e il pur diverso classicismo condiviso da Borgese in gioventù, esemplificano bene. Il saggio del ‘23 aiuta inoltre a riscoprire la drammaticità della conversione manzoniana, il suo valore di salto, di stacco. La morale laica che Manzoni proclama fino al 1808 non è un preannuncio di quella cristiana, come pure è stato sostenuto (Bertoldi 18–22; Momigliano, Liriche 19; Chiari 237), né rivela una latente ed inconsapevole adesione alla seconda. La conversione, semmai, fa sì che Manzoni possa contrapporre la morale dell’umile Lucia Zarella all’ethos eroico e sicuro di sé di Marco Bruto (F 122). Mi pare che questi risultati permettano altre acquisizioni critiche su cui Borgese non si sofferma, ma a cui proficuamente avvia: [End Page 49] la scoperta del senso autobiografico (e non dogmatico) dell’anticlassicismo manzoniano, l’individuazione delle ragioni profonde che spinsero il poeta a ripudiare il Carme in morte di Carlo Imbonati (Lt I: 309, 391; II: 101, 308), la piena comprensione delle riflessioni compiute da Manzoni sul peccato originale nelle Osservazioni sulla morale cattolica, il riconoscimento della duplice ispirazione del Carmagnola e dell’Adelchi. 19

4. Il dialogo di Borgese con Manzoni non finisce qui. 20 I suoi sviluppi riservano un’altra sorpresa: il desiderio di grandezza eroica e l’umiltà alimentata dalla convinzione religiosa, che nel saggio del ‘23 sono i poli di un’oscillazione individuale, diventano dopo dieci anni le categorie con cui Borgese interpreta, anche attraverso Manzoni, la storia e la società italiana. Mussolini intanto era stato nominato primo ministro, l’Italia era diventata uno stato totalitario, e Borgese aveva deciso all’inizio degli anni ‘30 di trasferirsi negli Stati Uniti da dove si oppose alla dittatura. Tra il 1935 e il 1937 scrisse in inglese un libro sull’ascesa al potere dei fascisti, Goliath, individuando, al di là delle cause politiche, economiche e sociali (alle quali attribuì scarsissima importanza), una fondamentale ragione psicologica per il loro successo. In tutti i paesi esistono abitudini o presupposti mentali che si trasmettono da una generazione all’altra, in maniera quasi inavvertita. In Italia, osserva Borgese, alcune di queste abitudini sono positive; inducono alla tolleranza, al prevalere della bontà sulle passioni intellettuali. Una particolarmente negativa è costituita [End Page 50] dall’odio degli italiani per la mediocrità, dal loro amore per il maestoso ed il grande (G 61). Essi credono di essere, o credono di dover essere, gli antichi romani (G 485); vogliono esistenze geniali, eroiche, titaniche; assumono atteggiamenti plutarchiani che sono assurdi nella vita moderna e che, per la determinazione estrema che richiedono, sono generalmente insostenibili. 21 Da qui la loro frustrazione, la confusa inquietudine, la vergognosa coscienza di sé che ne condiziona le scelte (G 227). Borgese oggettiva il suo passato nel passato dell’Italia e attribuisce agli italiani, o alla maggior parte di loro, la mentalità ambiziosa ed estremista di Rubè. Lo fa con abilità, descrivendo numerose situazioni storiche in cui le ambizioni di gloria o le conseguenti frustrazioni hanno prevalso sull’analisi della realtà e gli interessi della nazione. Durante la prima guerra mondiale, ad esempio, l’Italia sarebbe dovuta restare neutrale. “This was—scrive Borgese—the advice of sound mediocrity and common sense” (G 118). La disfatta di Caporetto non fu maggiore e peggiore di tutte le altre sugli altri fronti, ma gli italiani “wanted it to be the biggest and worst and, yielding once more to their complexes of inferiority and despair, broadcast the name of Caporetto, with a feeling of burning shame, to all the continents and seas” (G 124). Il fascismo, prosegue Borgese, ha sfruttato le ambizioni smodate degli italiani sostituendo alle frustrazioni che ne derivavano un illusorio senso di grandezza raggiunta, rivestendo la realtà con i fronzoli della potenza. Nel 1935 Mussolini volle a tutti i costi combattere in un’Etiopia già sua per soddisfare il bisogno di grandezza degli italiani, per farli partecipare alla trionfale, benché fittizia, conquista di un impero.

L’ideale imperiale di Dante, l’ammirazione di Petrarca per Cola di Rienzo, la passione di Machiavelli per la storia romana, il gusto rinascimentale per l’antichità, persino l’elmo di Scipio nell’inno di Mameli mostrano, secondo Borgese, che anche i protagonisti della storia culturale italiana provarono uno spropositato desiderio di grandezza nazionale congiunto al rimpianto per la romanità. Fra i pochi ad essere immuni da quella malsana aspirazione ci furono Parini (“the purest Italian representative of the eighteenth-century ideal of humanity . . . whose accent was far more on morality and charity than on dogma and mythology,” G 66), Cavour (“he was no [End Page 51] poet or prophet . . . the least nourished with classical and medieval tradition; he disliked, happily for him, any kind of political Romanism,” G 76), e, soprattutto, Manzoni. Manzoni fu “the first and only one who, far from joining as an equal or an emulator the personality of Dante, systematically opposed many of its most powerful implications. He did this in his modest and cautious way; he carefully avoided, whenever he could, even mentioning Dante; and he would have felt ashamed of posing as his antagonist. But, quite consciously, he rejected any kind of Titanism and Plutarchian heroism; he also quietly discarded the Dantean theory and practice of an aristocratic and lofty poetic language, endowing his rising nation with the most valuable of his gifts: a plain, clear language, apt to prose, science, and colloquial usage” (G 66). Le osservazioni che Borgese fa su Manzoni in Goliath sono molto lucide: “the accent of his religion—scrive—was far more on the Christian than on the Catholic element; and, again, that accent was far more on the Catholic, that is, universal, than on the Roman element of Catholicism. Charity and piety were foremost to him” (G 67). A differenza di quanto facevano i principali studiosi manzoniani degli anni ‘30 (Omodeo, Ruffini, Russo) Borgese non mette in dubbio lo spirito di sottomissione alla chiesa dello scrittore (G 488) e spiega correttamente come Manzoni fosse portato ad esso dalla propria umiltà. 22

Quello che stimola e lascia contemporaneamente perplessi è la tesi di fondo: è possibile parlare seriamente di una mentalità o di un’anima italiana? è lecito dire che Manzoni rappresenta la parte migliore di quell’anima e che D’Annunzio e Mussolini ne incarnano invece la parte corrotta? Per ammissione dello stesso Borgese, determinare i contrassegni psicologici nazionali significa “impoverire, schematizzare un processo spirituale estremamente ricco e molteplice . . . scolorarne l’attraenza pittorica.” Ma, aggiunge lo scrittore siciliano, “non c’è descrizione né racconto storico senza questi schematismi che sono poi le scelte della memoria, gli accorgimenti dell’intelligenza” (S 4). Nell’Europa degli anni ‘30 ci furono altri tentativi di spiegare le ragioni o i risvolti psicologici del trionfo fascista, e Goliath non sfigura accanto ai prodotti migliori di quelle riflessioni, The Mass Psychology of Fascism di Wilhelm Reich (1933) e [End Page 52] Escape From Freedom di Erich Fromm (1941). Che una certa esaltazione della classicità e forme degradate di superomismo nietzscheano abbiano contribuito alla formazione dell’ideologia fascista in Italia e in Francia è generalmente ammesso. In Italia, infine, sono stati molti ad appoggiarsi a Manzoni contro la prepotenza dottrinaria o l’oratoria eroicizzante del fascismo: Gadda ha visto in lui “forse il vecchio genio italiano non ancora sfibrato dalla verbosità e dalla violenza polemica, dalla fregola del vaticinio” (6); Tobino lo ha contrapposto a coloro che “bramano i Colli di Roma insieme a sensuali amori e raffinate sofferenze” (588); Saba ne ha fatto l’anti-D’Annunzio per eccellenza (751). Indipendentemente dalla validità ultima della sua impostazione, l’interpretazione di Borgese ha il merito di raccogliere intuizioni sparse all’interno della cultura italiana e di farne un pensiero organico che ha un sicuro potere di provocazione intellettuale e morale, e che avrebbe meritato almeno di suscitare prese di posizione con cui confrontarsi. Una volta tradotto in italiano, purtroppo, il libro fu accolto da un “sostanziale silenzio” (Salvadori 5) e, par di capire, da una benevola indifferenza.

Durante il soggiorno americano Borgese approfondisce ulteriormente e descrive in maniera particolareggiata le sue intuizioni religiose, che si sviluppano in una direzione divergente da quella manzoniana. Il suo approccio al religioso è non confessionale (Olivieri 103), l’atteggiamento nei confronti della gerarchia e del clero romani decisamente polemico (G 315–26); la tendenza ecumenica è più insistita che in Manzoni (C 204–9, W 267–77), il momento mistico più pronunciato (I vivi e i morti, Tempesta nel nulla). La fede di Borgese è anche millenaristica (G 38; C 159–60, 211–12; Rl 85–86, 121): è difficile che lo scrittore siciliano trovi il tempo o il modo di apprezzare virtù come la pazienza e la rassegnazione; preferisce insistere sulle possibilità che ogni essere umano ha di essere “wholly human—i.e. nearest to the angel’s nature—good and wise and strong and beautiful” (C 244). Borgese cita due volte Trotzky per ripetere con lui che “everything was right with Christ, except the defeat” (C 212, W 217). 23 Tornato in Italia con l’intenzione di scrivere ancora su Manzoni (Acme 15n), Borgese fece in tempo a preparare un unico saggio che fu pubblicato postumo sul Corriere della sera: Perché i Promessi sposi non sono popolari nel mondo? Innanzi tutto perché non soddisfano gli [End Page 53] stereotipi che all’estero si hanno dell’Italia (“gli operai e contadini, i Renzi, le Lucie, capita che siano operosi e civili, probi e puliti,” Dd 238). E poi, scrive Borgese, perché la religiosità espressa nel romanzo è un sentimento complesso, serio, difficile da capire: non è il cattolicesimo “delle insurrezioni razionaliste” e neppure quello “delle osservanze bigotte”; è povero “di rapimenti mistici e ugualmente povero di seduttivo folklore, quali le parate, le processioni, le fiestas” (Dd 239). È una religiosità che non si lascia appiattire sulle esperienze e le convinzioni altrui. Borgese questa volta non cerca di assimilare gli scritti manzoniani al proprio punto di vista; riconosce la loro alterità ed è probabile che a questo punto fosse consapevole di averne capito solo una parte, peraltro importante. Insieme a Manzoni Borgese vide che l’umiltà è un sentimento presupposto da ogni intuizione trascendente autentica, e di quello stato d’animo il “superbo” (Omodeo 71), “sprezzante” (Caprin 222), autocompiaciuto (Russo 384, 395, 431–32) Borgese sentì il valore e il bisogno, esprimendolo compiutamente in Rubè. Manzoni era arrivato a quella scoperta attraverso una contemplazione della condizione umana e della morte che Borgese non avviò autonomamente e neppure ripensò. Per il Manzoni dei Promessi sposi gli ideali di gloria sono totalmente inadeguati ad un’esistenza che comincia dal nulla e ritorna nel nulla. La visione di Borgese è meno radicale; la sua è una critica sostanzialmente empirica di ideali che si sono rivelati disastrosi per lui e per l’Italia. Da quel punto di vista egli sviluppa un’analisi che è si limitata, ma anche ammirevole per la sua lucidità.

Luciano Parisi
Oxford Brookes University

Footnotes

1. Per indicare le pagine citate dalle opere di Borgese userò le seguenti sigle: C (Common Cause), D (Gabriele D’Annunzio), Dd (Da Dante a Thomas Mann), F (Saggio sul ‘Faust’), G (Goliath), Gi (La guerra delle idee), Gr (Guerra di redenzione), Ig (Italia e Germania), In (L’Italia e la nuova alleanza), L (Lezioni di estetica), P (Poetica dell’unità), R (Rubè), Rl (Russland. Wesen und Werden), S (Il senso della letteratura italiana), Sl (Studi di letterature moderne), St (Storia della critica romantica in Italia), T (Tempesta nel nulla), V (I vivi e i morti), W (Foundations of the World Republic). Per indicare invece le pagine citate dalle opere di Manzoni userò le seguenti sigle: A (Adelchi), C (Carmagnola), Cq (Il cinque maggio), F (Fermo e Lucia), I (In morte di Carlo Imbonati), In (Dell’invenzione), L (Del trionfo della libertà), Lt (Lettere), O (Osservazioni sulla morale cattolica), P (I promessi sposi), Pn (Pentecoste), Pt (Postille), R (Lettera sul romanticismo).

2. Sulle ragioni di questa ostilità si vedano il libro di Ragonese Manzoni illuminista e quello di Bàrberi Squarotti Il romanzo contro la storia.

3. La rappresentazione dei personaggi umili e il tono familiare dei Promessi sposi incontrarono la disapprovazione dei classicisti italiani e persino di qualche romantico, come Tommaseo (Puppo 363). Auerbach illustra bene i diversi tipi di rappresentazione a cui portavano la visione classica del mondo e quella del primo cristianesimo (24–49).

4. Lo stile e il gusto di Manzoni sarebbero compostamente classici, ma la sua personalità morale sarebbe orientata in senso decisamente anticlassico. Borgese prova a conciliare il cristianesimo manzoniano e lo stoicismo classicheggiante che lo scrittore milanese aveva ammirato in gioventù (“lo scolaro di Epicuro [Manzoni] era divenuto un discepolo di Cristo e non cercava l’atarassia nella sorridente indifferenza, ma nella virtù del sentire e meditare, di contentarsi del poco, di conservar pura e la mano e la mente,” St 197). Il suo tentativo però è poco convinto (fra stoicismo e cristianesimo, infatti, “non è piccola differenza, intendo anch’io,” St 197). Di qualche continuità tra stoicismo e cristianesimo Borgese parla anche in Rubè (314).

5. Va detto peraltro che Borgese fu quasi ossessionato dal bisogno di essere il primo a sostenere una nuova tesi (D 14, Gr 3, Gi ix, Rl 8) e che questo desiderio di originalità, soprattutto quando fu esercitato fuori dal campo della critica letteraria, lo portò a sostenere proposte molto discutibili come la formazione di uno stato latino nell’Europa meridionale dei primi anni ‘20 (In 39–41, 53–64) o l’idea di uno sbarco alleato in Siberia durante la seconda guerra mondiale (C 140–42). Sulla accuratezza esegetica del suo studio sul romanticismo italiano ha avanzato delle riserve V. Paladino (7–34).

6. Lo spirito del libro di Borgese su D’Annunzio, osserva Mattalia, “neg[a], e anzi rovesci[a], il succo e il costrutto di gran parte delle sue pagine” (101).

7. La “quintessenza di tutte le virtù” (F 158) è la “perenne inquietudine” (F 150): “agire, combattere senza tregua, progredire, se è possibile, cadere se è inevitabile, non abbattersi mai sul sentiero, non chiedere mai pace all’immobilità o alla morte” (F 76)—Il Saggio sul ‘Faust’ fu pubblicato nel 1909 nella rivista Il rinnovamento col titolo “La disfatta di Mefistofele.” Comparve in volume nel 1911 col titolo Mefistofele e nel 1933 col titolo definitivo. Le mie citazioni provengono dall’edizione del ‘33.

8. Sull’eroina goethiana anche Carducci aveva espresso un parere analogo, vedendo in lei “la stupida ragazza che si dà al primo che cápita” (Croce, Goethe 42).

9. Forme di disprezzo per la maggioranza dei lettori sopravvivono anche nel Senso della letteratura italiana (37, 82, 93) e ad esse si rivolge la critica di Luigi Russo (390).

10. Momigliano descrive l’Innominato come “una statua di bronzo in cui ogni nervo è teso da una volontà infallibile,” una volontà che “cerca gli ostacoli per superarli” (9). Anche nelle opere della maturità Momigliano non cessò di manifestare riserve sull’aspetto comico del romanzo manzoniano (Alessandro Manzoni 204).

11. La personalità di Manzoni, secondo Borgese, costituiva il regalo fatto dalle guerre napoleoniche alla civiltà italiana; figure di pari grandezza sarebbero state prodotte dalla guerra mondiale (Sl vii). La tesi fu ritrattata nella Guerra delle idee (207).

12. “L’Italia neutrale, anche se ci dovessero regalare una massa di territori e di danaro, sarebbe una sentina, perfin peggiore di quel che fu nel ‘600, un paese putrido” (Gr 34).

13. Anche questa interpretazione sopravvive in Borgese dopo la ritrattazione delle sue tesi interventiste. La si ritrova in Common Cause (20).

14. “Of all marks of inferiority—dice Borgese nel Goliath—longing for superiority constitutes the most blatant” (G 486).

15. È curioso notare che i due versi citati da Borgese (“Brilla nel guardo errante / Di chi sperando muor”) sono probabilmente ispirati dall’Eneide virgiliana (“oculisque errantibus alto / quaesivit caelo lucem” scrive Virgilio, IV 691–92 [208]). Si è già visto d’altra parte come l’anticlassicismo manzoniano e, a questo punto, l’anticlassicismo borgesiano non escludano un gusto letterario di ascendenza classica.

16. Altri rinvii del Rubè ai Promessi sposi sono meno espliciti. A pag. 365, ad esempio, un’osservazione del narratore (“queste, del sonno e del pianto, sono le due voluttà più paradisiache che concede, quando le concede, agli uomini la terra”) riecheggia le pagine finali della conversione dell’Innominato nel romanzo manzoniano. Secondo Langella in Rubè ci sono anche reminiscenze delle Osservazioni sulla morale cattolica e dell’Adelchi (406). Langella inoltre rintraccia echi delle tragedie manzoniane e dei Promessi sposi nel secondo romanzo di Borgese, I vivi e i morti (409).

17. Ettore Bonora spiega bene il significato dell’ Ei si nomò confrontando questo passo con la fonte bossuetiana (“Quel autre a fait un Cyrus, si ce n’est Dieu, qui l’avait nommé deux cent ans avant sa naissance dans les oracles d’Isaïe? Tu n’es pas encore, lui disait-il, mais je te vois, et je t’ai nommé par ton nom”). Chi risale alla fonte, scrive Bonora, “intende su quale atto di superba sicurezza Napoleone fondasse la sua potenza. Non Dio infatti ha nominato l’eroe, ma è l’eroe che da se stesso si dà l’investitura per farsi arbitro fra due secoli” (76).

18. Dei Promessi sposi Borgese capisce bene i personaggi che si convertono, che sentono il bisogno di valori ulteriori a quelli terreni: l’Innominato, padre Cristoforo, potenzialmente anche Gertrude. Per lui Manzoni “è lirico eccelso ogni volta che riferisce un passaggio, un transito: passaggio di credenza” (Dd 217) e i Promessi sposi avrebbero dovuto intitolarsi La conversione (Dd 215). Borgese si avvicina con maggiori difficoltà di comprensione ai personaggi che, come Renzo e Lucia, vivono invece nella fede dall’inizio del romanzo.

19. I versi più famosi del Carme (“Sentir, riprese, e meditar: di poco / esser contento: da la meta mai / non torcer gli occhi: conservar la mano / pura e la mente,” con quel che segue, I 198) non contrastano in genere con lo spirito cristiano per il loro contenuto, ma per la loro forma apodittica, per la sicurezza con cui il giovane poeta che li scrive si mostra sicuro di poter applicare quelle norme etiche; una sicurezza che per il Manzoni maturo è una manifestazione di superbia. Nelle Osservazioni Manzoni scrive che il riconoscimento della propria debolezza morale è una “testimonianza difficile e dolorosa” (418) e che da essa bisogna partire per fondare l’applicazione della propria etica.

20. Nella Poetica dell’unità e nelle Lezioni di estetica Borgese discute le convinzioni estetiche di Manzoni. Queste pagine sono state analizzate dettagliatamente da Langella che osserva: “Borgese ribadisce la sua grande considerazione dell’ ‘eccellenza’ del Manzoni pensatore oltre che letterato, ne riconosce l’alto magistero, si sente ‘erede’ dell’impostazione etica che l’autore del Carmagnola aveva dato alla definizione di uno statuto dell’arte; ma non può condividere quello che egli chiama il platonismo di Manzoni, cioè il troppo severo ‘segregamento’ teorico delle belle lettere entro una ‘funzione pedagogica’” (402). Altri giudizi di Borgese su Manzoni si trovano nel Senso della letteratura italiana (dove Manzoni è presentato come il poeta “più paziente e rasserenato di tutti,” 91) e in Common Cause (Manzoni sarebbe “a gentle Latin poet of Catholicism—in some respect, the gentlest of all” (159).

21. Nel Senso della letteratura italiana Borgese trascrive con simpatia queste parole di Guicciardini: “Quanto s’ingannano coloro che ad ogni parola allegano e’ Romani. Bisognerebbe avere una città condizionata come era la loro, e poi governarsi secondo quello esempio; il quale, a chi ha le qualità disproporzionate, è tanto disproporzionato quanto sarebbe volere che un asino facesse il corso di un cavallo” (S 50–51).

22. Si tratta di un atteggiamento che Borgese loda in Manzoni ma che non suggerisce di imitare (G 488). Scrive inoltre: “It was a hard task to separate the permanent values of Christianity from the superstitions and the political meanness of the Roman Church; neither could the humble Manzoni succeed single-handed in a task which would have proved too heavy even for a collective religious revolution” (G 67).

23. Nella City of Man Borgese scrive: “We dare pronounce again the prayer—and now the battlecry—‘Thy kingdom come.’ For any religion or doctrine cloaking injustice and misery on earth under the promise of some transcendent bliss to come deserves the scorn of Marx, who called them ‘the opium of the people’” (Agar 49).

Testi Citati

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Footnotes

  1. 1. Per indicare le pagine citate dalle opere di Borgese userò le seguenti sigle: C (Common Cause), D (Gabriele D’Annunzio), Dd (Da Dante a Thomas Mann), F (Saggio sul ‘Faust’), G (Goliath), Gi (La guerra delle idee), Gr (Guerra di redenzione), Ig (Italia e Germania), In (L’Italia e la nuova alleanza), L (Lezioni di estetica), P (Poetica dell’unità), R (Rubè), Rl (Russland. Wesen und Werden), S (Il senso della letteratura italiana), Sl (Studi di letterature moderne), St (Storia della critica romantica in Italia), T (Tempesta nel nulla), V (I vivi e i morti), W (Foundations of the World Republic). Per indicare invece le pagine citate dalle opere di Manzoni userò le seguenti sigle: A (Adelchi), C (Carmagnola), Cq (Il cinque maggio), F (Fermo e Lucia), I (In morte di Carlo Imbonati), In (Dell’invenzione), L (Del trionfo della libertà), Lt (Lettere), O (Osservazioni sulla morale cattolica), P (I promessi sposi), Pn (Pentecoste), Pt (Postille), R (Lettera sul romanticismo).

  2. 2. Sulle ragioni di questa ostilità si vedano il libro di Ragonese Manzoni illuminista e quello di Bàrberi Squarotti Il romanzo contro la storia.

  3. 3. La rappresentazione dei personaggi umili e il tono familiare dei Promessi sposi incontrarono la disapprovazione dei classicisti italiani e persino di qualche romantico, come Tommaseo (Puppo 363). Auerbach illustra bene i diversi tipi di rappresentazione a cui portavano la visione classica del mondo e quella del primo cristianesimo (24–49).

  4. 4. Lo stile e il gusto di Manzoni sarebbero compostamente classici, ma la sua personalità morale sarebbe orientata in senso decisamente anticlassico. Borgese prova a conciliare il cristianesimo manzoniano e lo stoicismo classicheggiante che lo scrittore milanese aveva ammirato in gioventù (“lo scolaro di Epicuro [Manzoni] era divenuto un discepolo di Cristo e non cercava l’atarassia nella sorridente indifferenza, ma nella virtù del sentire e meditare, di contentarsi del poco, di conservar pura e la mano e la mente,” St 197). Il suo tentativo però è poco convinto (fra stoicismo e cristianesimo, infatti, “non è piccola differenza, intendo anch’io,” St 197). Di qualche continuità tra stoicismo e cristianesimo Borgese parla anche in Rubè (314).

  5. 5. Va detto peraltro che Borgese fu quasi ossessionato dal bisogno di essere il primo a sostenere una nuova tesi (D 14, Gr 3, Gi ix, Rl 8) e che questo desiderio di originalità, soprattutto quando fu esercitato fuori dal campo della critica letteraria, lo portò a sostenere proposte molto discutibili come la formazione di uno stato latino nell’Europa meridionale dei primi anni ‘20 (In 39–41, 53–64) o l’idea di uno sbarco alleato in Siberia durante la seconda guerra mondiale (C 140–42). Sulla accuratezza esegetica del suo studio sul romanticismo italiano ha avanzato delle riserve V. Paladino (7–34).

  6. 6. Lo spirito del libro di Borgese su D’Annunzio, osserva Mattalia, “neg[a], e anzi rovesci[a], il succo e il costrutto di gran parte delle sue pagine” (101).

  7. 7. La “quintessenza di tutte le virtù” (F 158) è la “perenne inquietudine” (F 150): “agire, combattere senza tregua, progredire, se è possibile, cadere se è inevitabile, non abbattersi mai sul sentiero, non chiedere mai pace all’immobilità o alla morte” (F 76)—Il Saggio sul ‘Faust’ fu pubblicato nel 1909 nella rivista Il rinnovamento col titolo “La disfatta di Mefistofele.” Comparve in volume nel 1911 col titolo Mefistofele e nel 1933 col titolo definitivo. Le mie citazioni provengono dall’edizione del ‘33.

  8. 8. Sull’eroina goethiana anche Carducci aveva espresso un parere analogo, vedendo in lei “la stupida ragazza che si dà al primo che cápita” (Croce, Goethe 42).

  9. 9. Forme di disprezzo per la maggioranza dei lettori sopravvivono anche nel Senso della letteratura italiana (37, 82, 93) e ad esse si rivolge la critica di Luigi Russo (390).

  10. 10. Momigliano descrive l’Innominato come “una statua di bronzo in cui ogni nervo è teso da una volontà infallibile,” una volontà che “cerca gli ostacoli per superarli” (9). Anche nelle opere della maturità Momigliano non cessò di manifestare riserve sull’aspetto comico del romanzo manzoniano (Alessandro Manzoni 204).

  11. 11. La personalità di Manzoni, secondo Borgese, costituiva il regalo fatto dalle guerre napoleoniche alla civiltà italiana; figure di pari grandezza sarebbero state prodotte dalla guerra mondiale (Sl vii). La tesi fu ritrattata nella Guerra delle idee (207).

  12. 12. “L’Italia neutrale, anche se ci dovessero regalare una massa di territori e di danaro, sarebbe una sentina, perfin peggiore di quel che fu nel ‘600, un paese putrido” (Gr 34).

  13. 13. Anche questa interpretazione sopravvive in Borgese dopo la ritrattazione delle sue tesi interventiste. La si ritrova in Common Cause (20).

  14. 14. “Of all marks of inferiority—dice Borgese nel Goliath—longing for superiority constitutes the most blatant” (G 486).

  15. 15. È curioso notare che i due versi citati da Borgese (“Brilla nel guardo errante / Di chi sperando muor”) sono probabilmente ispirati dall’Eneide virgiliana (“oculisque errantibus alto / quaesivit caelo lucem” scrive Virgilio, IV 691–92 [208]). Si è già visto d’altra parte come l’anticlassicismo manzoniano e, a questo punto, l’anticlassicismo borgesiano non escludano un gusto letterario di ascendenza classica.

  16. 16. Altri rinvii del Rubè ai Promessi sposi sono meno espliciti. A pag. 365, ad esempio, un’osservazione del narratore (“queste, del sonno e del pianto, sono le due voluttà più paradisiache che concede, quando le concede, agli uomini la terra”) riecheggia le pagine finali della conversione dell’Innominato nel romanzo manzoniano. Secondo Langella in Rubè ci sono anche reminiscenze delle Osservazioni sulla morale cattolica e dell’Adelchi (406). Langella inoltre rintraccia echi delle tragedie manzoniane e dei Promessi sposi nel secondo romanzo di Borgese, I vivi e i morti (409).

  17. 17. Ettore Bonora spiega bene il significato dell’ Ei si nomò confrontando questo passo con la fonte bossuetiana (“Quel autre a fait un Cyrus, si ce n’est Dieu, qui l’avait nommé deux cent ans avant sa naissance dans les oracles d’Isaïe? Tu n’es pas encore, lui disait-il, mais je te vois, et je t’ai nommé par ton nom”). Chi risale alla fonte, scrive Bonora, “intende su quale atto di superba sicurezza Napoleone fondasse la sua potenza. Non Dio infatti ha nominato l’eroe, ma è l’eroe che da se stesso si dà l’investitura per farsi arbitro fra due secoli” (76).

  18. 18. Dei Promessi sposi Borgese capisce bene i personaggi che si convertono, che sentono il bisogno di valori ulteriori a quelli terreni: l’Innominato, padre Cristoforo, potenzialmente anche Gertrude. Per lui Manzoni “è lirico eccelso ogni volta che riferisce un passaggio, un transito: passaggio di credenza” (Dd 217) e i Promessi sposi avrebbero dovuto intitolarsi La conversione (Dd 215). Borgese si avvicina con maggiori difficoltà di comprensione ai personaggi che, come Renzo e Lucia, vivono invece nella fede dall’inizio del romanzo.

  19. 19. I versi più famosi del Carme (“Sentir, riprese, e meditar: di poco / esser contento: da la meta mai / non torcer gli occhi: conservar la mano / pura e la mente,” con quel che segue, I 198) non contrastano in genere con lo spirito cristiano per il loro contenuto, ma per la loro forma apodittica, per la sicurezza con cui il giovane poeta che li scrive si mostra sicuro di poter applicare quelle norme etiche; una sicurezza che per il Manzoni maturo è una manifestazione di superbia. Nelle Osservazioni Manzoni scrive che il riconoscimento della propria debolezza morale è una “testimonianza difficile e dolorosa” (418) e che da essa bisogna partire per fondare l’applicazione della propria etica.

  20. 20. Nella Poetica dell’unità e nelle Lezioni di estetica Borgese discute le convinzioni estetiche di Manzoni. Queste pagine sono state analizzate dettagliatamente da Langella che osserva: “Borgese ribadisce la sua grande considerazione dell’ ‘eccellenza’ del Manzoni pensatore oltre che letterato, ne riconosce l’alto magistero, si sente ‘erede’ dell’impostazione etica che l’autore del Carmagnola aveva dato alla definizione di uno statuto dell’arte; ma non può condividere quello che egli chiama il platonismo di Manzoni, cioè il troppo severo ‘segregamento’ teorico delle belle lettere entro una ‘funzione pedagogica’” (402). Altri giudizi di Borgese su Manzoni si trovano nel Senso della letteratura italiana (dove Manzoni è presentato come il poeta “più paziente e rasserenato di tutti,” 91) e in Common Cause (Manzoni sarebbe “a gentle Latin poet of Catholicism—in some respect, the gentlest of all” (159).

  21. 21. Nel Senso della letteratura italiana Borgese trascrive con simpatia queste parole di Guicciardini: “Quanto s’ingannano coloro che ad ogni parola allegano e’ Romani. Bisognerebbe avere una città condizionata come era la loro, e poi governarsi secondo quello esempio; il quale, a chi ha le qualità disproporzionate, è tanto disproporzionato quanto sarebbe volere che un asino facesse il corso di un cavallo” (S 50–51).

  22. 22. Si tratta di un atteggiamento che Borgese loda in Manzoni ma che non suggerisce di imitare (G 488). Scrive inoltre: “It was a hard task to separate the permanent values of Christianity from the superstitions and the political meanness of the Roman Church; neither could the humble Manzoni succeed single-handed in a task which would have proved too heavy even for a collective religious revolution” (G 67).

  23. 23. Nella City of Man Borgese scrive: “We dare pronounce again the prayer—and now the battlecry—‘Thy kingdom come.’ For any religion or doctrine cloaking injustice and misery on earth under the promise of some transcendent bliss to come deserves the scorn of Marx, who called them ‘the opium of the people’” (Agar 49).